
Tag
La Gara – Puntata 13: Balcanica

Tornando al sopravvivere, e alle modalità umane di mettere in atto questa pratica, più forti del previsto, il Brennero mi ricorda anche questo. Siamo al confine. Anzi, in un certo senso siamo nel Confine, quello per eccellenza. Quello dove conta solo passare, possibilmente vivi e liberi, di là. Il limes delle rotte dell’est. Mentre passo il GPM a poco più di 1300 metri di quota (il più basso di tutta la Gara) rivedo la segnaletica italiana, le bandiere, gli autocarri in fila, in attesa dei doganieri, lungo l’Autostrada omonima che mi scorre a fianco, e poi anche lei, la ferrovia. Qui, tra un vagone e l’altro, in inverno, i migranti patiscono un freddo che nemmeno ci immaginiamo noi concorrenti dell’Ötztaler Radmarathon. Abitano la fame, curano come possono il sonno, si arrangiano come riescono con gli indumenti che hanno o che trovano: vecchie scarpe da ginnastica, fradice di neve e ricoperte di fango. Tutto e solo per una cosa: sopravvivere. Che nella loro meticcia lingua comune del dolore significa passare di là. Dalla padella nella brace.
Quando la motrice del treno finalmente aumenta la velocità, la neve bastarda schizza via nella notte nera, dalla chiglia di uno dei vagoni di coda per un solo istante appaiono proprio loro. Le scarpe Nike, Adidas, Timberland magari, ma vecchie di decenni, quelle che noi nemmeno più ricordiamo, magari le stesse che indossavano proprio i Paninari. Escono, nascosti nella bisarca diretta in Austria. Sono profughi. Sperano di sfuggire così ai doganieri inflessibili di Vienna. Di solito serve a niente: come per i soldati che attraversano, temerari e disperati, la linea del fuoco. Quasi tutti vengono acciuffati e rimandati indietro. Ma un modo per superare il confine, a ben guardare, in realtà esiste: basta inviare un messaggio WhatsApp ai trafficanti. Lo snodo per farlo è più a Sud, a Tarvisio. Nel Comune più orientale della provincia di Udine, dove arrivano i superstiti della rotta balcanica, in tasca hanno il gruzzoletto giusto da mettere nelle mani dei passeur. Mercanti d’uomini che li condurranno “di là”, dove vogliono. Se va bene, chiaramente. Ma deve andare bene (anzi, benissimo). Ogni dettaglio deve cioè filare liscio come e più dell’olio. Quasi un miracolo.
I recapiti cui inviare i messaggi WhatsApp si trovano negli ultimi rifugi di fortuna in Bosnia, terra che ne sa qualcosa di queste cose estreme e drammatiche. Spesso sono pezzi di cartone usati come lavagne su cui si legge chiaramente il prefisso “+39”.
Il costo degli scafisti su gomma è costantemente al rialzo: si parla di 800€ soltanto per l’ultimo miglio, se si vuole arrivare in Svizzera, e di poco meno se ci si “accontenta” dell’Austria, proseguendo poi da soli, a proprio rischio e pericolo. I prezzi salgono invece vertiginosamente se si preferisce viaggiare da soli e non “in compagnia”, per non dare troppo nell’occhio.
Ma se ogni anno sono in 300, in media, a farcela a valicare il Brennero tra i profughi – meno di un decimo dei concorrenti dell’Ötztaler – tantissimi di più sono quelli che non la scampano. O che – peggio ancora – ci lasciano le penne.

Scartabellando qua e là (adoro questo genere di attività) ho trovato un vecchio articolo dell’Avvenire, in cui si raccontano le vicende di un certo Alidad Shiri. Un adolescente fuggito allora dai Talebani che gli avevano sterminato il resto della famiglia. Alidad sbucò da sotto il semiasse di un Tir diretto in Germania. Quando i carabinieri lo presero, reagì come aveva sempre fatto con le gendarmerie asiatiche e balcaniche: offrì loro un pugno di dollari perché lo lasciassero andare. Finì che il maresciallo gli trovò un centro d’accoglienza dove si sarebbero presi cura di lui. Oggi Alidad ha trent’anni, è un affermato giornalista altoatesino d’adozione, oltre che uno scrittore di successo.
Ha saputo “sopravvivere”, conservarsi, come Ötzy, e come – nel loro infinitesimamente più piccolo – i concorrenti delle Gara.
5000 anni fa, anche l’uomo dei ghiacci stava fuggendo. Migrava, a suo modo, o forse scappava banalmente da qualcuno e da qualcosa. Una belva, un altro uomo dell’età del Rame imbufalito con lui per qualche motivo. Chissà.
Per quanto riguarda le ragioni della sua morte e sul motivo per cui si trovava a passare in quella zona impervia delle Ötzaler Alpen, si sono fatte varie ipotesi: ipotermia e poi congelamento. L’uomo sarebbe stato sorpreso all’improvviso da una bufera, aveva provato a resistere ma poi aveva dovuto soccombere. Successivamente, invece, grazie alla scoperta di una ferita sulla spalla sinistra, si propese per la morte violenta: l’uomo dei ghiacci era stato attaccato e, dopo avere tentato di difendersi disperatamente, era stato ucciso.
L’uomo di Similaun (come venne inizialmente battezzato dai giornali) venne chiamato Ötzi, appunto, come i concorrenti chiamano, con affetto e senza conoscere la strana coincidenza, la Gara, in onore del luogo di ritrovamento.
Dopo anni, un’attenta disamina sul punto esatto dove era avvenuta la scoperta fatta dai due alpinisti escursionisti Hemlut e Erika Simon consentì di affermare con precisione che quella conca, seppure per poche decine di metri, si trovava in territorio italiano. Ötzi venne quindi prelevato da Innsbruck e trasportato al museo archeologico di Bolzano, dove tutt’ora riposa in una stanza frigorifera, con temperatura costante a -6 sei gradi e umidità al 90%.

Qualcosa di analogo, una scoperta di tale portata, si era vista soltanto altre due volte nella storia: nel caso della mummia di Tutankhamon e in quello dell’uomo di Tollund. Il cadavere mummificato di un uomo appartenuto all’Età del Ferro, ritrovato, per caso, nelle torbiere danesi.
Se si vuole rimanere invece nell’ambito dei soli miracoli “glaciali”, quello forse più eclatante di tutti riguarda un animale. Un mammut di 25 o 30 mila anni fa, conservatosi intatto nel permafrost siberiano fino ai giorni nostri.
Una cosa è certa: ciò che il ghiaccio ruba, il ghiaccio, prima o poi, restituisce.
Il luogo di confine dove è stato possibile questo miracolo non ha mai smesso di affascinare studiosi, alpinisti, semplici curiosi che vi si recano abitualmente. Una sorta di zona franca, che forse, come ci insegnano gli animali che la attraversano incuranti dei confini geografici, non appartiene a nessuno. Una radura artica posta tra montagne millenarie, tra i vapori acquei delle nuvole basse che risalgono dalla valle dell’Ötz e che si adagiano, stanche e a fatica, in quota, un po’ dove capita. Il sole penetra a stento e soltanto di rado in quella coltre densa, il ghiaccio mimetizza ogni cosa e nasconde gelosamente i propri segreti. Funge, insomma, quasi da sipario protettivo per incantesimi rari, e non deve essere stato facile per gli studiosi e i ricercatori approntare qualcosa di simile, in un museo, la camera frigorifera di Bolzano.
Oggi, in quella conca speciale dove è stato ritrovato l’uomo dei ghiacci, sorge un obelisco di rocce a forma di piramide. Una sorta di simbolo pagano per ricordare il miracolo compiuto qui dalla natura. Un monolite che ricorda quello celeberrimo di Kubrick nel film 2001: Odissea nello spazio. Quasi fosse un enorme punto di domanda: come? Come è stato possibile tutto ciò?
Una domanda cui l’uomo ha saputo rispondere scientificamente, ma che non ha ancora forse una spiegazione più alta, filosofica, legata al senso stesso dell’esistenza umana. Quell’obelisco allora oggi sembra anche posto in prossimità di un luogo dove ci è stato lanciato un segnale, un messaggio da decifrare forse solo con il tempo. Oppure anche mai, una radura da abitare, senza cercare di rispondervi mai definitivamente, come sosteneva il filosofo tedesco Martin Heidegger.

Ma forse, dopo tutto, inconsapevolmente, è anche un omaggio alla tragica scia di disgrazie che colpì, come una maledizione (esattamente come quella che si dice propagò la mummia di Tutankhamon), tutti coloro che avevano contribuito al ritrovamento di Ötzi. A partire da quell’Helmut Simon che per primo lo vide, e ne rimase folgorato.
Helmut morì tragicamente nel 2004, durante un’escursione sulle Alpi Salisburghesi, cadendo accidentalmente in un crepaccio. Quel che non gli era accaduto abbandonando il sentiero battuto sul giogo di Tessa, gli accadde tredici anni dopo altrove.
Nel 2005 lo avrebbe seguito anche Konrad Spindler, il luminare dell’Università di Innsbruck che aveva dichiarato, visibilmente sotto shock, la portata millenaria della scoperta: fu vittima di una forma particolarmente aggressiva di sclerosi. Ma la scia di misteriosi decessi legati a Ötzi non si esaurisce qui: a perdere la vita saranno anche Rainer Holf, un operatore della tv austriaca che, salito in quota a seguito della spedizione, realizzò un servizio pionieristico per l’epoca e rimasto nella storia. Poi fu la volta di Urt Fritz, l’alpinista che aiutò a trasferire la mummia di Ötzi da Innsbruck a Bolzano e quindi di Günther Henn, il medico legale che per primo fu incaricato di fare il primo esame autoptico.
Morti sulle quali si è molto ricamato, degne di un romanzo giallo o – forse, ancora meglio – di una serie tv. Più probabilmente solo un concatenarsi accidentale di coincidenze particolarmente sfortunate. Ma tutte accomunate dal farci ripensare a quel messaggio ancora non decifrato che circonda il corpo dell’uomo venuto dai ghiacci. Ovvero, il grande mistero dell’esistenza e della sua conservazione.
Scavalco in sella alla mia bici, indenne, il Brennero e i suoi demoni e mi fiondo nella discesa, umida ma meno fredda di quella precedente dal Kühtai, verso Vipiteno. Sterzing per i locali. La partita dello yogurt, quello che amo di più. Al mirtillo, per la precisione. Due ciclisti davanti a me si sono appena arrotati in curva, uno dietro l’altro, lo capisco da come sono adagiati e doloranti: una bici è finita oltre il guardrail, l’altra ha il telaio spezzato in due: guai del carbonio. Leggerissimo, ma fragile e friabile come li tufo. Il secondo sembra avere avuto la peggio: il primo, che con l’anteriore deve avere urtato quello davanti, è quantomeno seduto e vigile, a cavalcioni sulla lamiera del guardrail. Una gamba di qua e una di là, verso le mucche che lo guardano sconsolate. Ha un sopracciglio sanguinante e lo sguardo completamente perso nel vuoto. La sua “migrazione” è finita qui, e il suo “traum” anche. Non arriverà “di là”. Un’ambulanza sopraggiunge a sirene spiegate da dietro di me, mi affianca, mi supera, con una manovra da fantascienza accosta. Spero che i miei copertoni non mi tradiscano proprio ora che sono costretto, mio malgrado, a frenare cambiando traiettoria e perdendo quindi aderenza. Le ruote della lettiga schizzano melma e fango dall’asfalto viscido lerciando i miei occhialoni scuri ulteriormente. Li ripasso: osservo con un brivido che mi corre lungo la schiena. Con la coda dell’occhio vedo i due soccorritori di arancio vestiti precipitarsi fuori dall’abitacolo verso i ciclisti caduti. Poi chiudo gli occhi, anche se solo per una frazione di secondo, ma ne ho bisogno. Un bisogno fottuto. Quasi a scacciare quell’orrendo pensiero nato da una visione drammatica, e subito torno a guardare davanti a me con attenzione minuziosa e circospetta. Io NON devo cadere.
Qualcuno dice che ieri ha nevicato anche qui, a bassa quota, sul Brennero. Chissà se Alidad e i profughi afgani, turchi, armeni, ucraini e kossovari lo sanno che qui capita, talvolta anche d’estate. (CONTINUA)
“La Gara” è una web-novel a puntate che pubblico online bisettimanalmente, se ti è piaciuta questa, torna tra qui qualche giorno. Mentre qui sotto, ci sono tutti gli episodi precedenti, enjoy:
Leggi la Prima Puntata
Leggi la Seconda Puntata
Leggi la Terza Puntata
Leggi la Quarta Puntata
Leggi la Quinta Puntata
Leggi la Sesta Puntata
Leggi la Settima Puntata
Leggi l’Ottava Puntata
Leggi la Nona Puntata
Leggi la Decima Puntata
Leggi l’Undicesima Puntata
Leggi la Dodicesima Puntata