La Gara – Puntata 4: Ride to Survive

Fisso le cabine della funivia per il ghiacciaio di Rottenbach ferme alla stazione di partenza, sulla mia destra.
I vetri sono pieni di goccioline, deve aver piovuto tutta la notte, l’asfalto è fradicio e pieno di pozzanghere, ma al momento – è vero – non scende una sola goccia effettivamente. La frittata è ormai fatta: “se non piove quando guardiamo fuori dalla finestra, partiamo” ci siamo detti ieri sera in pizzeria. Frase che vuole dire tutto e allo stesso tempo non vuole dire nemmeno niente. Il fatto che fuori piova al momento della partenza sposta di poco le cose: potrebbe diluviare o, peggio ancora, nevicare mezz’ora dopo. Cosa ci sarebbe di diverso?

Manca mezz’ora alla partenza e i concorrenti – quelli che hanno deciso di partire – arrivano alla spicciolata: chi bardato di tutto punto, chi, soprattutto i tedeschi, addirittura con i pantaloncini corti. Sicuramente sono meno della metà degli iscritti: gli altri terrorizzati (probabilmente sanamente) dalle previsioni di Vetterzentrale del giorno prima, non si sono nemmeno alzati. Chi è qui ha gli occhi sbarrati, nascosti sotto gli occhialoni scuri, le mandibole serrate, e soprattutto sono tutti (tutti!) imbacuccati come se fosse pieno inverno.

Guardo il termometro della farmacia poco davanti a me: 3 gradi. Previsioni confermate. Eppure al momento non avverto freddo: l’umidità scalda, la presenza umana attorno a me (almeno un migliaio siamo) anche e dopo tutto questo è anche il momento più bello. Quello dove ormai le decisioni sono state prese, i dubbi dissipati e rimasti a letto. Subentra un certo fatalismo: ora si va, si fa quello che si è capaci di fare meglio. Pedalare. In fondo è questo, dopo tutto – quasi ormai ce ne fossimo dimenticati – il motivo per cui siamo qui. E pedalare è sempre bello, un piacere intenso, emozionante, profondo. Forse persino, per certi versi, un modo di essere. Mi sono accorto, dopo dieci anni di ciclismo amatoriale e di luoghi, montagne, paesaggi scoperti solo grazie alla bicicletta, che pedalare è il mio modo di relazionarmi con il mondo. Dunque, che cosa potrei chiedere di più ora? Sono qui per fare la cosa che più amo fare. Vada come deve andare.

Il concorrente di fianco a me abbassa gli occhiali, chiude la zip della giacca in goretex e aggancia il pedale. Ci siamo, là davanti qualcosa si muove. Una marmellata di caschi colorati si sposta, dapprima lentamente, poi sempre più convintamente: un movimento, un’onda d’urto che parte da lontano e arriva fino a te, che conosco ormai bene. Il botto del cannone però, per qualche motivo, mi deve essere sfuggito. Sono le 6 e mezza, quando passo sotto il gonfalone con il timer che ha iniziato a contare i secondi e avvio anche il mio computerino di bordo. Un Garmin GPS. C’è da sperare che la batteria duri fino all’arrivo. L’altoparlante spara a massimo volume gli ACDC, tipico di queste situazioni. L’aria è fredda e umida e il vento taglia già la faccia. Gli schizzi si alzano ovunque, bevo acqua piovana, quella sollevata dalle ruote posteriori dei concorrenti che mi precedono, finché non decido di chiudere la bocca e respirare con il naso o di sposarmi dalla scia di chi ho davanti.

Ma, così facendo, perdo anche i benefici della scia appunto: sono al vento, a svolazzare, la giacca sbatacchia. Mi pare di essere in barca più che in bicicletta: il rumore inconfondibile delle cerate al vento, quello delle vele. Cazzo, siamo in alto mare. Ora tocca mettersi al trapezio e menare come fabbri. Però che bello. Dio santo, non farei mai più il cambio con la coltre soffice del piumone e il senso di malinconia e smarrimento di chi non è sceso in strada. Sentimento che conosco bene per averlo spesso provato: diverse volte ho scelto di non partire. E forse, ora proprio sulla base di quell’esperienza, ho deciso di non farlo. E
Sì, cazzo, il primo chilometro l’abbiamo fatto. Tra gli schizzi di mota, i sassi spazzati via dai tubolari e i campanacci dei bambini dalle gote rosse e i capelli albini che affollano la vallata lungo il letto dell’Ötz già a quest’ora antelucana. Avanti così che è una meraviglia.


Mi incuneo subito, facendomi se possibile ancora più piccolo, in un drappello di austrungarici non meglio identificabili, ma sufficientemente grandi e grossi da metter in mostra buone gambe, partono subito lancia in resta, abbondantemente sopra il 40 all’ora. È il mio treno, mi chiama. In gara in bici ognuno ha il suo. O, meglio, se lo deve trovare da sé: lesto vi si deve infilare, prestando attenzione alle borracce che cadono, alle rotonde malsegnalate, ai ventagli mancati, agli svolazzi, alle cadute (frequenti alla partenza) e ai cambi di traiettoria improvvisi. Ora siamo scesi dalla barca a vela e siamo saliti a bordo di una Formula 1.
Scelgo di sfruttare la scia di questi omoni del Nord, e vorrei tenere le loro ruote calde e accoglienti almeno fino a Lägenfeld. Questo, almeno, ciò che mi prefiggo mentre lo faccio. Altrimenti che senso avrebbe andare fuori giri già al primo chilometro solo per inseguirli?

Al mio fianco ascolto lo scrosciare impetuoso delle acque dell’Ötz: scorrono vorticose, ma a allo stesso tempo, a me, anche familiari: qui ci sono stato tante volte, conosco queste sensazioni. Guardo Max, il mio amico di mille battaglie. È al mio fianco anche oggi. Già lui ci sarebbe stato comunque: aveva già deciso di partire in ogni caso. Qualunque fossero state le condizioni del meteo.

Gli sorrido, un ghigno perfido in realtà, che sa anche un po’ di sana incoscienza: siamo partiti, hai visto? Dopo tutto quel elucubrare, controllare, ragionare, dopo tutte le discussioni, le variabili, i siti meteo consultati, le prove di abbigliamento fatte, ora finalmente siamo dentro. E quel che deve essere sarà. Si spegne tutto. Poche chiacchiere e menare, diceva Felice Gimondi (TO BE CONTINUED)

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