La Gara – Puntata 5: Similaun

L’estate del 1991 fu particolarmente calda. Fino alla metà di settembre, in tutto il Tirolo, la temperatura si mantenne superiore di parecchi gradi rispetto alla media stagionale. Un evento più unico che raro. A ricoprire le cime più alte delle Alpi, quella volta, era arrivata persino la sabbia del deserto. Era stata trasportata sin lì da un anomalo vento sahariano. Milioni di granelli smerigliati si erano depositati come zucchero a velo sopra la coltre azzurrina di ghiaccio millenario. Quei piccoli granelli, all’apparenza innocui, avevano in realtà attratto i raggi solari come calamite, provocando un forte innalzamento della temperatura sulla crosta sottostante. Un fenomeno del tutto inconsueto per quelle terre gelate. Quell’anno il ghiacciaio del Similaun, a più di 3200 metri di quota nella zona delle cosiddette Ötztaler Alpen, si ritrasse molto più della sua normale estensione. Fino a rivelare parti di sé che probabilmente non avevano mai visto la luce.

Era la tarda mattina del 19 settembre. Il sole era alto in cielo e l’aria frizzante. Era una di quelle tipiche giornate che in montagna sanno di meraviglia e incantesimi. Erika e Helmut Simon, una coppia di coniugi tedeschi di Norimberga, dovevano raggiungere il rifugio Similaun, base di moltissime escursioni per alpinisti.

La piccola casupola si trova a una quota di 3210 metri, nei pressi dell’Hauslabjoch, il valico alpino che segna esattamente il confine tra Italia e Austria.
Erika e Helmut, non più giovanissimi, erano stanchi e provati per la lunga escursione in quota. Pregustavano già il tepore della stübe in maiolica del rifugio, il profumo dei tavoli in legno di pino intarsiato e anche un piatto caldo di knödel. Ma la strada per il Similaun era ancora lunga. Come sempre in alta montagna, le cose che sembrano vicine possono essere in realtà estremamente lontane. Helmut lo sapeva e per questo aveva proposto ad Erika di abbandonare il sentiero “ufficiale”, tagliando e accorciando così il tragitto.

Una leggerezza per degli escursionisti inesperti, ma non per Helmut ed Erika. I due coniugi Simon avevano alle spalle diverse ferrate, bivacchi e giornate passate con ramponi e piccozze su e giù per i ghiacciai, tra i crepacci e i seracchi, con il naso perennemente all’insù e gli occhi fissi oltre i tremila metri. Era il loro sogno. Quella, i tremila, era una sorta di quota di elezione. Là dove iniziavano davvero a respirare e a staccarsi da terra.

Insomma, decisero che quella piccola disobbedienza, per loro, non avrebbe potuto avere conseguenze.

Fatte poche centinaia di metri si fermarono di colpo. Poco più in basso, sotto di loro, avevano visto qualcosa. Erano due sporgenze scure che affioravano in mezzo a un mare bianco azzurrino e scintillante. Inconfondibili. Sulle prime pensarono a delle rocce sporgenti che si ergevano tra i ghiacci. Poi, guardandole meglio e accorgendosi che avevano una forma un po’ troppo strana per essere rocce – una perfettamente sferica, tanto da sembrare un pallone da calcio di quelli di cuoio dei primi del ‘900, l’altra curva e ritorta – si persuasero che fossero oggetti “umani”. Una borsa, oppure uno zaino, abbandonati là in cima da qualche alpinista. Cosa che succedeva spesso. Helmut prese a scendere sempre più rapidamente, lasciando la mano di Erika, e facendole cenno di non muoversi e di aspettarlo dov’era: poteva essere pericoloso. E farsi male in due avrebbe impedito all’altro di chiamare i soccorsi (TO BE CONTINUED)

A mano a mano che scendeva, con il fiato sempre più corto e il vapore denso che gli usciva dalla bocca, Helmut non sentiva più la fatica, percepiva invece una sorta di strana eccitazione. Quella delle grandi scoperte. Una forma di trance che, per così dire, lo rinfrancava e gli faceva dimenticare il mal di gambe e i piedi ghiacciati. Un entusiasmo infantile lo pervadeva da capo a piedi.
E, quando gli fu appena sopra, a quella cosa, sentì all’improvviso le tempie pulsare e il sangue gelarglisi nelle vene. Quella macchia a forma di palla da calcio scorta da lontano non era una borsa, nemmeno un zaino, men che meno una tenda. Era la testa di un uomo.

E quella sporgenza, quella curva e ritorta, era un braccio, piegato all’altezza del gomito.
Helmut barcollò. Si tese, guardò meglio. Poi alzò lo sguardo verso la linea dell’orizzonte: vide le vette ghiacciate del Similaun e poi più in su, verso le creste di confine: le nuvole le avvolgevano rade. Si precipitò verso Erika che lo guardava dall’alto.
E intanto pensava: i soccorsi! Occorre chiamare i soccorsi. Anche se era assolutamente ovvio che quell’uomo fosse morto da diverso tempo e non c’era alcuna possibilità di salvarlo, era comunque necessario informare il soccorso alpino, qualcuno sicuramente ne aveva denunciato la scomparsa.

A chi apparteneva quel corpo? A un alpinista, sicuro. Qualcuno che per qualche motivo era rimasto bloccato lassù, magari perché inesperto, avventato, insomma uno alle prime armi. Il fenomeno dell’alpinismo di massa era ancora agli albori nel ’91, ma ogni tanto qualcuno intrappolato in un seracco o sorpreso da una tormenta di neve spingeva gli elicotteri ad alzarsi in volo per soccorrerlo.

Non fu facile recuperare quel corpo per il soccorso alpino. Il giorno dopo, il maltempo impedì di attivare le operazioni. Stessa cosa il successivo, e non si trovò nemmeno un elicottero disponibile per giorni.
Nel frattempo però, Helmut ed Erika non rimasero i soli ad essersi imbattuti in quella creatura misteriosa. Reinhold Messner e Hans Kammerlander, due noti alpinisti e habitué della zona, durante un’escursione di allenamento, avevano raggiunto quello stesso pianoro a due passi dal Similaun. Avevano visto il corpo, si erano fermati per liberarlo dai ghiacci e si erano accorti rapidamente che in tutta la zona circostante, coperti dal ghiaccio, giacevano una serie di oggetti probabilmente appartenuti a quell’uomo.
Si trattava di suppellettili, attrezzi da lavoro, brandelli di indumenti. Quello che oggi potremmo definire un misterioso ed enigmatico beauty case preistorico: armi per la caccia, una borsa a tracolla, una faretra con tanto di frecce. Tutti utensili perfettamente conservatisi grazie al ghiaccio e al clima estremamente secco delle Ötztaler Alpen. Ma Reinhold Messner aveva subito intuito che non poteva trattarsi di oggetti appartenenti a un uomo di oggi. In particolare, la sua attenzione venne catturata da alcuni piccoli contenitori: all’apparenza recipienti, realizzati in corteccia di betulla. Un’usanza di cui i due alpinisti non avevano mai sentito parlare, nemmeno dai propri avi (TO BE CONTINUED)

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