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La Gara – Puntata 6: L’Età del Rame

Due giorni dopo la “seconda scoperta” di Messner e Kammerlander, finalmente vengono organizzate le operazioni di soccorso. Sul luogo si reca perfino una troupe televisiva che filma tutto. Un documento straordinario, che diventerà unico nella storia della tv. Il corpo dell’”uomo venuto dai ghiacci” (così è stato nel frattempo ribattezzato dalla stampa quella misteriosa creatura) viene trasportato con estrema cura a valle per essere esaminato all’Università di Innsbruck. Ad occuparsene è il professor Konrad Spindler, massimo esperto di archeologia in Austria. Il suo responso è rapido e indiscutibile: si tratta di un uomo dell“Età del Rame”, cinquemila anni fa. Si è conservato fino ai giorni nostri per via delle straordinarie condizioni climatiche di quella zona. Il gelo, certo. Ma anche il clima secco e ventoso hanno contribuito a impedirne la decomposizione, sostanzialmente “essiccandone” i tessuti. Ma c’è di più: gli oggetti ritrovati assieme al corpo permettono di ricostruite le abitudini di vita di quell’uomo, sul corpo vengono individuati numerosi “tatuaggi”, non a scopo ornamentale come i nostri, ma per fini terapeutici (l’uomo soffriva di mal di schiena), alcuni tessuti dello stomaco consentono di stabilire persino cosa avesse mangiato prima di morire.
Qualcosa di straordinario, una scoperta archeologica senza precedenti.
Un avvenimento miracoloso e che, per certi versi ricorda il caso del ritrovamento della mummia di Tutankhamon in Egitto o quello dell’uomo di Tollund, il cadavere mummificato di un uomo appartenuto all’Età del Ferro, ritrovato, per caso, nelle torbiere danesi da due contadini. La notizia fa rapidamente il giro del mondo: l’uomo dei ghiacci, soprannominato nel frattempo più semplicemente Ötzy, in omaggio alla zona dove è stato rinvenuto, è in prima pagina ovunque. È come se l’uomo fosse sbarcato una seconda volta sulla luna.

Le Ötztaler Alpen sono una zona ancestrale, un’increspatura speciale delle Alpi orientali in prossimità del confine austriaco ma non lontane da quello svizzero, con guglie appuntite. La cima più alta della catena è l’iconica e inconfondibile Wildspitze, che è anche la montagna più alta dell’intero Tirolo. Lo sanno bene gli abitanti di Vent, piccolo paesino abbarbicato in testa alla valle, posato quasi ai suoi piedi e circondato da prati di un verde scintillante. Qui, ogni anno, prima del solstizio d’estate, i pastori italiani della Val Senales portano le loro pecore a pascolare dopo una giornata intera di transumanza. Attraversano la mole ghiacciata del Simialun, scendono con circospezione lungo sentieri esposti, seguiti soltanto dal loro bianco gregge e dai fedeli cani pastore. Un rituale che si ripete identico da migliaia di anni.
A Vent, la strada asfaltata, quella che risale dal caratteristico paesino di Sölden, termina. Oltre non si va. O si va solo a piedi, per sentieri e mulattiere impervie, quelle appunto note solo ai pastori senalesi. Ma, soprattutto, si va verso territori inospitali ed estremi, dove – se ci si avventura come Erika e Helmut – occorre essere preparati. Vent è considerato “il paese degli alpinisti”: è l’ultimo avamposto da cui partono gli escursionisti per le loro avventure sul Similaun.
Soltanto qui, nella valle austriaca ai piedi di questo luogo apparentemente inospitale ma in realtà capace di miracoli, poteva tenersi uno degli eventi sportivi più duri, ma allo stesso tempo anche più amati e ambiti al mondo. Un evento in cui lo spirito di sopravvivenza e la volontà di “conservarsi” come ha fatto Ötzy hanno la meglio sulla componente agonistica.
Si tratta di una corsa ciclistica amatoriale che da 40 anni consacra come eroi persone di tutti i giorni, accomunate dalla passione per la bicicletta e per il superamento dei propri limiti fisici. Una prova di endurance che non ha eguali in Europa. 238 chilometri e 5.500 metri di dislivello: dieci o dodici ore di bicicletta almeno. Per i meno allenati anche di più.
Si corresse da un’altra parte – per esempio nella vicinissima Venosta o Pusteria – questa stessa gara non sarebbe la stessa cosa.

Qui, invece, dove tutto è più cupo e angusto, assume i connotati di un’impresa leggendaria. Qualcosa di primordiale e animalesco, comunque antico. Una faccenda, insomma, che va bel al di là del ciclismo, della semplice fatica fisica o dell’agonismo. Qualcosa che forse ha a che fare, intimamente, con l’incredibile scoperta avvenuta qui nell’estate del 1991.
In palio, in questa maratona a due ruote, c’è qualcosa di più impellente, di più difficile da capire, e ancor più da spiegare, rispetto alla semplice impresa sportiva. Per capirlo, in questa valle, occorre venirci e abitarla.
In questa gara, la sofferenza fisica di chi sta in sella sfuma in quella mentale, dove i fattori psicologici possono avere la meglio – o la peggio – su quelli del corpo. Si arriva per sfinimento, si deve essere più alpinisti che ciclisti. Tocca non arrendersi mai, e provare ad andare sempre oltre. Lo sanno bene tutti i concorrenti e per questo scelgono di iscriversi. Piccolo particolare: come sappiamo, l’Ötztaler Radmarathon prevede un sorteggio: il numero di richieste di iscrizione è troppo alto (cinque volte tanto) per consentire a tutti i ciclisti di pedalare in sicurezza. Gli organizzatori, hanno introdotto proprio per questo motivo, da alcuni anni, un sorteggio: soltanto pochi “fortunati” prenderanno il via dal centro di Sölden alle 6 e 45 dell’ultima domenica di agosto. E quest’anno un quarto d’ora prima, come detto.
All’Ötztaler si pedala un’intera giornata tra valli dove i fiumi scorrono impetuosi e le montagne, tutte o quasi sopra i duemila metri, raccontano di nevicate fitte anche d’estate e di musi lunghi scavati dal freddo. Luoghi dove, forse, solo gli uomini dell’età del Rame o, in epoca più recente, i contrabbandieri, sapevano davvero come fare a sopravvivere. Questi ultimi vagavano agili e leggeri con le loro bricolle in spalla, cariche di tutta la loro mercanzia illegale. Si muovevano tra una cresta e un seracco, con disinvoltura, come se fossero a casa loro. E lo facevano senza mai temere ciò che il destino poteva avere in serbo per loro. Uomini, insomma, forgiati, seppure in epoche lontanissime tra loro – l’Età del Rame e l’Ottocento – da una comune propensione. Quella per la sopportazione del dolore, della fatica e della temerarietà (TO BE CONTINUED)
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