La Gara – Puntata 3: Peaky Blinders

Bollettino meteo serale di Wetterzentrale: domani pioggia gelata già dalla partenza, neve dalla vetta del passo del Rombo, e forse anche prima, sicuro sopra i duemila, dunque già dal Kühtai, ma non è detto che non ci sia qualche spruzzo anche qua e là verso valle, se lo zero termico dovesse scendere.

Pochi, sostanzialmente assenti del tutto, gli sprazzi di sole, forse solamente nel tratto italiano di gara: da Vipiteno a Moso in Passiria, ma non è nemmeno detto. 3 gradi alla partenza, zero sopra i 1800 metri. Insomma c’è da prepararsi al peggio. Ma chi viene a questa gara, sa benissimo che le probabilità che tali condizioni si verifichino, a fine agosto, sono molto alte. È quasi l’eccezione trovare bel tempo: qualche anno fa l’ho fatta senza nemmeno una nuvola dall’inizio alla fine. E infatti quella (era il 2015) viene ricordata anche come l’unica edizione dell’Ötztaler Radmarathon con il sole lungo tutti i 238 chilometri di corsa. Un evento che non si ripeterà mai più. Fu la mia prima volta, rimasi sbalordito e probabilmente anche illuso dal fatto che fossi riuscito a portarla a termine senza trasformarla in un calvario. In molti addirittura, in quell’edizione, avevano patito il caldo afoso, irreale per quelle quote, diversi concorrenti in preda ai crampi per disidratazione, nei campi con la bici abbandonata, ad abbozzare posture innaturali. Vedere arrivare quella sera, ben dopo il tramonto, gli ultimi concorrenti sotto una stellata da urlo e con una falce di luna in mezzo alle tenebre fu un’emozione surreale. Nell’immaginario dei finisher di questa corsa c’è sempre l’arrivo degli ultimi con un tempo da lupi, concorrenti fradici e infreddoliti, coperte termiche che li avvolgono, pianti isterici o di gioia, persino qualche mancamento, a volte l’ambulanza con flebo pronta all’uso. Quella volta invece il destino ci regalò una giornata da incorniciare, dove ogni foto scattata sembrava degna di finire sulla copertina del National Geographic. Non ci furono infatti solamente il sole e una temperatura anomala, quel giorno, ma anche una visibilità pressoché perfetta: la cima della Palla Bianca, inconfondibile montagna tirolese che appare verso la fine sullo sfondo mentre si sale il passo del Rombo da San Leonardo in Passiria, fu credo la più instagrammata della giornata tra le vette alpine. Fu per tutti un’autentica manna quella volta, i veterani sbalorditi, mai si erano nemmeno sognati un giorno di trovare condizioni meteorologiche del genere, da fare persino invidia a chi era ai Caraibi sulla spiaggia con un cocktail in mano. Avrei persino potuto giurare che qualcuno, se ci avesse visti in quel momento, mentre procedevamo ordinati lungo i tornanti senza nemmeno fiatare, ci avrebbe invidiato. Avrebbe voluto, per una volta, almeno un po’, provare in prima persona quelle stesse nostre sensazioni eroiche, quelle che nessuno dei non-concorrenti riesce a spiegarsi razionalmente. Quelle che dovrebbero rispondere in quattro e quattr’otto alla fatidica domanda: ma chi te lo fa fare?

Sì, fu proprio indimenticabile l’edizione dell’Ötztaler del 2015.

Se guardo fuori dalla finestra ora, invece, posso vedere i pini piegarsi in modo innaturale, fino quasi a spezzarsi. Si è alzato un vento impetuoso. Gelido e siberiano. Si parla di Burian o di Blizzard (io ricordo solo gli sci, favolosi, degli anni ’80) o di sa il diavolo cosa.

Non parto, ho quasi deciso. A Max, uno dei due amici con cui dividerò la camera e che mi ha messaggiato poco fa (è in coda in autostrada), ho dato 30% di possibilità.
Sto qua, quatto quatto, sotto il piumone king size e vaffanculo. Leggerò libri, in fondo, raramente ho a disposizione una giornata intera per farlo nella vita di tutti i giorni. E qui sono in vacanza.

Rotolerò giù nella sala buffet giusto per buttare giù un paio di caffè, quando i pochi impavidi avventurieri saranno già sotto l’acqua e la neve con le loro biciclette. Al pomeriggio scruterò l’orizzonte dalla mia finestra, esattamente come sto facendo ora. Compiaciuto per la neve e per il freddo che patiranno quei pazzi in gara. Pazzi a cui io mi fregerò, e lo farò – giuro – con orgoglio, di non appartenere. Almeno per stavolta, maledetta Ötztaler, non mi avrai.

Accenderò il laptop e mi finirò la sesta stagione di Peaky Blinders, la mia serie tv preferita su Netflix: la connessione dell’hotel qui è una bomba.

Una cosa è certa: non mi presenterò mai e poi mai in griglia di partenza, in braghe corte, alle sei e mezza del mattino. Col cazzo. Non sono pagato, sono qui per divertirmi, che – per carità – vuole dire anche fare fatica in bicicletta, ma non certo finire disperso tra i ghiacci, aspettando che qualche escursionista per caso si imbatta nel mio corpo ibernato. Non mi immolo solo perché un rubicondo austriaco dai capelli rossi ha pescato la mia fortunata pallina dal pallottoliere del sorteggio, lo scorso marzo. Anzi, maledetto sia quel giorno in cui mi hanno estratto come partecipante a questa fottuta maratona del cavolo in bicicletta.

Già, però allora cosa ci sono venuto a fare quaggiù nel Tirolo austriaco? Perché mi sarei dovuto sciroppare 400 chilometri in auto, di cui la metà passati in coda sull’Autobrennero, solo per essere qui? Che il meteo fosse tragico, lo si sapeva da giorni. Perché muoversi? Tanto valeva starsene a casa. A Milano, a lavorare.

E invece, ora, il fatto che io sia qui, come questi altri 4000 poveri disgraziati in preda al dubbio, alle angosce, ai tormenti del giorno prima, rende tutto maledettamente più complicato.

Se riparto per Milano domattina, sarà una sconfitta.  

Se mollo, so che starò meglio, ma solo per qualche ora, poi crollerò in uno stato di inesorabile irascibilità e nervosismo diffusi, una strana forma di vaga depressione e astenia difficile da spiegare a chi mi circonda, ma molto comune a tutti coloro che si ritirano o non partono per un’impresa programmata. Mi verrebbero a mancare la necessaria dose di adrenalina, le scorte di energia mentale (e in qualche misura anche fisica) per affrontare l’inverno. Perché questa gara, c’è poco da fare, si trasforma, per qualunque concorrente vi partecipi, in uno straordinario booster, fondamentale per gestire il resto dell’anno. Ho un amico che dopo aver corso quasi tutte le altre manifestazioni amatoriali d’Europa, per lo meno le più blasonate, come la Maratona dles Dolomites o la Marmotte sulle Alpi francesi, per esempio, da dodici anni partecipa solo ed esclusivamente a questa. Dice che le altre ormai per lui non hanno più significato.

Ha staccato, come si suol dire, il numero dalla schiena, non si sente più un corridore, ma a questa vuole assolutamente esserci, sempre.

Perché questa non è una gara, è un appuntamento con se stessi, una sorta di rito pagano che si ripete ogni anno, come il miracolo del sangue di San Gennaro che si liquefà nel Duomo di Napoli. Non importa quante volte lo hai visto, ciò che conta è che si ripeta sempre uguale.

Una coazione a ripetere di dolore-gioia che non ha eguali evidentemente.

A conferma di tutto ciò il fatto che la maggior parte dei concorrenti, una volta tagliato il traguardo, in stato catatonico, giura a se stesso puntualmente: mai più! Eppure soltanto un’ora dopo è già sul sito ufficiale a guardare quando sarà il sorteggio per l’edizione successiva. (TO BE CONTINUED)

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