La Gara – Puntata 7: Diventare Jedi

Per essere pronto al via, una volta estratto nel sorteggio, ciascun aspirante finisher dell’Ötztaler Radmarathon deve prima prepararsi accuratamente. Dovrà cioè allenarsi duramente, quasi sempre in montagna, per tutta l’estate e la primavera, dicendo addio alle vacanze al mare.
Ma non basta: dovrà anche sforzarsi di simulare il più possibile le condizioni climatiche imprevedibili e uniche di queste valli. Un altro fattore decisivo, al pari delle gambe e del cuore e forse persino di più del cervello, per portare a termine “la” gara.
Si può partire con il sole e arrivare con la neve. Salire in pantaloncini e maniche corte e trovarsi a scendere in mezzo a una bufera barcollando come caravelle nella tempesta. Il clima, all’Ötztaler, gioca un ruolo fondamentale: la capacità di adeguarsi e resistervi diventa un prerequisito fondamentale. E spesso la resistenza alle intemperie si trasforma in impresa nell’impresa.

La gente qui la chiama semplicemente la gara. Quasi non ce fossero altre. Le manifestazioni ciclistiche amatoriali abbondano in tutta Europa, sono un business, così come le gare di triathlon e le maratone. Da primavera all’autunno è un proliferare di granfondo, cicloraduni, brevetti. Ma niente è simile alla gara. Tutti lo sanno, tutti ambiscono a parteciparvi, tutti sognano quella maglia da “finisher” che viene consegnata al concorrente soltanto se (e dopo) aver superato il traguardo. All’arrivo si consegnano i chip che testimoniano incontrovertibilmente l’impresa avvenuta al comitato organizzatore e si ottiene in cambio quel vessillo di lycra dalle cuciture approssimativa ma dal valore affettivo inestimabile. Nessun’altra manifestazione ha lo stesso fascino e lo stesso valore di questa. “Hai fatto l’Ötztaler?” – si chiedono tra loro i ciclisti amatori di tutta Europa – “Allora sei un vero ciclista, sei un cavaliere jedi del dislivello”.

Una volta conquistata quella maglia, non si è più gli stessi.
C’è chi ne conserva decine, quelle di ogni partecipazione. Le tiene stipate nell’armadio sotto naftalina o incorniciate in casa come simulacri e trofei di guerra. C’è chi, dopo averne ottenuta una, giura di non ne vuole più sapere. Eppure l’anno successivo si presenterà di nuovo alla linea di partenza. È un teorema matematico.

Alla gara ogni concorrente torna a farsi soltanto corpo. Nella sua prestazione sportiva, entra in gioco qualcosa di primitivo e ancestrale, quasi animalesco. Fatto di fango, sudore, lacrime. Uno spogliarsi progressivo di tutto ciò che è civile e che l’uomo ha conquistato con fatica nei millenni. Tutte quelle che sono normalmente le nostre barriere difensive nella vita quotidiana qui vengono meno, non servono, sono armi spuntate: conta solo chi sei oltre quello che fai ogni giorno. Spesso, anzi direi pure quasi sempre, non lo sanno prima nemmeno i concorrenti stessi. Lo scopriranno strada facendo, perdendo prima la bussola delle rassicurazioni, per poi ritrovarne una ben più salda, duratura ed efficace.

Si deve badare solo al sodo, alla gara: in una parola conta sopravvivere, non vincere. E nemmeno arrivare secondi o terzi.
Il proprio istinto di auto-conservazione prende il sopravvento su tutto il resto. Come in ogni situazione estrema, si devono preservare prima di tutto le proprie funzioni vitali, tenerle sotto controllo. Serve conoscersi, sapersi gestire centellinare energie psicofisiche, e rimanere vigili e attivi.


Alla gara si è chiamati a sopportare uno sforzo prolungato dove si bruciano dalle sette alle diecimila calorie nell’arco di una sola giornata. Ci si nutre in corsa, ovviamente, per reintegrarle. Ma dei soli alimenti che ci si è premurati di portarsi con sé: barrette energetiche, gel, panini, salati e dolci, frutta secca (ricca di calorie). I ciclisti preparano tutto, come cuochi di una mensa, la sera prima, in un rituale che è già parte integrante della gara. Stipano alla bell’e meglio le vettovaglie nelle tasche delle maglie in lycra, che si trasformano in capienti marsupi di canguri.

I pochi punti di ristoro disseminati qua e là lungo il tracciato di corsa – solitamente in cima a ciascuna delle quattro salite – sono l’unica occasione per rifornirsi con cibi caldi e freschi: vengono offerte ai concorrenti zuppe, tè caldo, fette di crostata, banane a iosa. Ognuno in questa gara corre da solo e lo fa soltanto per se stesso, va da sé che deve contare solo sulle proprie forze. Sono vietati i mezzi a seguito dei partecipanti: niente ammiraglie, niente amici o famigliari che fanno da supporto. Arrivare al traguardo è già di per sé un’impresa. Non tutti ce la faranno. Alcuni, moltissimi, giungeranno in ipotermia, in preda ai crampi, faticando persino a scendere dalla bici una volta superata la finish-line. Ma nulla impedirà loro di salire i gradini di metallo della Freizeit Arena: il palazzo del ghiaccio di Sölden dove si ritirano le famose maglie di finisher. Fosse quello l’ultimo gesto che compiranno prima di stramazzare al suolo. Tocca appellarsi alle proprie forze residue allora, alla propria capacità di soffrire tutto il soffribile. Questa è l’unica, la sola, strategia all’Ötztaler Radmarathon.

In questa gara, tutti raggiungono una sorta di punto zero. Quello in cui tutto – o quasi – sembra perduto e le energie crollano definitivamente. È il momento oltre il quale sembra impossibile andare, è la crisi con la “c” maiuscola. Ecco, la vera gara inizia lì. Come nel caso del famoso muro del maratoneta: per chi corre a piedi la distanza dei 42 chilometri, è come se esistessero due gare, una dal chilometro zero al trenta, l’altra – la vera maratona – sono gli ultimi 12. Un’esperienza metafisica e a suo modo anche mistica, da fare. (TO BE CONTINUED)

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