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La Gara – Puntata 8: Asterix

Guardo Max, è ancora al mio fianco, ma tra poco lo perderò, lo so già. In gara è impossibile rimanere assieme, non ci si può tenere per mano come cappuccetto rosso nel bosco. Ci si perderà ma ci si rincontrerà, e allora sarà persino più bello.
I belgi, come insegna Asterix in un celebre episodio della fortunata saga Goscinny – Uderzo, non hanno paura di niente. Sono forti, robusti, vigorosi, guerrieri. E quelli che ho di fianco ora (nomi e nazionalità di ciascun concorrente sono riportati sotto il numero spillato sulla schiena con tanto di bandierina nazionale) non smentiscono la tradizione. Ridacchiano, spingono rapporti impossibili, i loro polpacci si muovono come stantuffi vaporosi di locomotive impazzite. Sollevano schizzi d’acqua e fango per via della strada fradicia che mi impastano gli occhiali e il casco. Non riesco nemmeno più a capire se piova o se sono solo le gocce sollevate dalle loro possenti ruote. Del resto, quando la strada è bagnata, in bici, stare a ruota diventa un martirio: si rischia di non vedere nulla, coperti dagli spruzzi di quello davanti. E se ti sposti a lato, siamo da capo: come sappiamo, finisci al vento e ti stacchi subito. Cazzo, che casino.
Mi metto in scia a quel bestione laggiù. Dopo aver perso il drappello dei begli, cerco di stargli un po’ di fianco, funziona: respiro e le gocce in faccia diminuiscono. Breve momento di sollievo.
Sarà almeno 90 chili. Una montagna umana, calda e avvolgente, che mi protegge da vento e intemperie come un ventre materno: mi piazzo qui e non mi smuove più nessuno. Non riesco a vedere bene la bandierina sul suo pettorale fissato sulla sua schiena barcollante: forse è olandese, oppure tedesco.
La sua bici è tedesca, riconosco il marchio: è una Rose. Le bici tedesche sono robuste, economiche, affidabili. Magari esteticamente meno affascinanti e pulite di quelle italiane, ma sicuramente molto solide: come sopra, bando ai fronzoli. Sono bici da Ötztaler. Sono bici da vichinghi.
Niente ruote ad alto profilo in carbonio per il teutonico germanico. Con il cerchio d’alluminio, e i freni tradizionali, che sarà anche meno bello, è più facile frenare se le strade sono bagnate, la pista frenante ci mette meno ad asciugarsi: con i cerchi in carbonio invece la prima frenata va clamorosamente a vuoto, modalità Coppa Cobram.
Dannazione, il bestione si è spostato, chiede il cambio: mi toccherà darglielo e finire in apnea, con le pulsazioni cardiache fuorisoglia già a inizio gara, senza per altro garanzie sulla possibilità di tenere la sua stessa velocità. Quaranta all’ora in piano, controvento, col cavolo che li faccio. A meno che non voglia finire prosciugato già dopo i primi chilometri. Butto giù di un dente e ci provo, almeno quello. Il cuore sembra reggere, il cardio mi dice che mantengo una frequenza cardiaca regolare. Buone notizie. Tiro un sospiro di sollievo. Nel frattempo siamo giunti finalmente a Läganfeld, scorgo la sagoma avveniristica dell’Aqua Dome laggiù, con le sue 12 vasche sospese. Dio che voglia avrei di fiondarmi in sauna adesso! 20 chilometri sono andati, dopo tutto non era così scontato. Potevo anche non partire, e invece ci sono. Vivo e vegeto.
E non mi sono ancora ritirato.

La prima edizione dell’Ötztaler Radmarathon si tenne nel 1982. Partenza da Innsbruck, davanti alla basilica di Wilt, 6 in punto del mattino. Dopo alcune variazioni di percorso e di location, nel 1996, per la prima volta, il via viene dato dal centro di Sölden. Gli iscritti, quella volta, sono appena 386. Ed è già un successo. La gente del paese si affaccia dalle finestre timidamente, scruta da capo a piedi con aria interrogativa questo strano popolo in lycra: sono così buffi bardati come palombari, sotto un cielo plumbeo che ricorda l’apocalisse. C’è da chiedersi che cosa cavolo abbiano in mente di fare. Nessuno lo sa con precisione: si parla di una manifestazione ciclistica, ma è ancora qualcosa di assolutamente generico, quasi un piccolo raduno di appassionati.
In quel momento, non è ancora possibile prevedere che, un giorno, quella stessa scena diventerà un rituale festante, dionisiaco, capace di coinvolgere tutta la popolazione, ciascuno con il suo ruolo. Quella partenza all’alba, il colpo di cannone, i ciclisti imbacuccati nelle mantelle a cercare di ingannare il freddo e la tensione come possono, i guanti, i caschi, qualcuno lo zainetto sulle spalle. No, a quella prima partenza da Sölden, erano tutti pronti a scommetterci: tempo un anno e nessuno di questi scriteriati verrà più qui a rompere l’anima alle sei del mattino.
Invece, quello stano appuntamento all’alba dell’ultima domenica di agosto si ripete costante come un orologio, anno dopo anno. E il numero di giovanotti in bicicletta aumenta progressivamente. Diventa, via via, una ricorrenza fissa. I sindaci dei paesi vengono avvisati settimane prima, le strade vengono chiuse alle auto per il passaggio dei ciclisti, i primi ristoranti predispongono dei gonfaloni da appendere tra un balcone e l’altro per farsi pubblicità: “colazione del ciclista”, “wurstel e crauti per scalatori” – si legge. Qualche albergo decide di riservare un paio di stanze ai concorrenti che non hanno trovato posto a Sölden: al mattino, prima della partenza, si faranno qualche chilometro in più sgranchendosi le gambe.
A mano a mano, edizione dopo edizione, anche la curiosità della gente, dei turisti estivi, cresce. Sempre più persone prendono a riversarsi lungo le strade all’alba, ognuno vuole i suoi cinque minuti di protagonismo: applaudire, supportare e soprattutto urlare quel caratteristico “Zuppe Zuppe!” che non è un incitamento alla pietanza calda, ma un ben più celebrativo “Super Super!”.
I giornali e le tv prendono a parlare di questa curiosa manifestazione ciclistica “amatoriale”, che di amatoriale però non ha un bel niente. Distanze sovraumane, dislivello da alpinisti. Nel giro di un paio di edizioni, dopo quella – la prima da Sölden – del ‘96, si arriva a toccare quota duemila. Un fiume in piena, un piccolo miracolo alpino da celebrare e festeggiare esattamente come la festa del patrono o la fiaccolata di capodanno (oltre che un beneficio per l’economia locale).

La manifestazione cresce tanto inspiegabilmente quanto esponenzialmente: fino a mettere in serie difficoltà gli organizzatori. Sopra i quattromila concorrenti diventava infatti difficile garantire condizioni di sicurezza sulle strade, imporre agli automobilisti di stare fermi agli incroci per diversi minuti, convincere sindaci e amministrazioni comunali a privarsi del consueto viavai di turisti o amanti dello shopping. Si rende così necessario ricorrere a quello che nessuno avrebbe mai immaginato e tantomeno voluto. Stabilire un tetto massimo di partecipanti, appunto quattromila. Assieme al successo, nel frattempo, arrivano gli sponsor, quelli grandi. Non il ristoratore di Obergurgl qualunque che offre il Bratwurst del ciclista il giorno della corsa, ma niente di meno che l’austriaca Red Bull, la bevanda energetica del toro rosso che “mette le ali”. Perfettamente in sintonia con la filosofia di sponsorizzazione di eventi sportivi estremi del brand, l’Ötztaler Radmarathon ha trovato il suo cosiddetto “title sponsor”.
Tanto che ai ristori vengono distribuite, e molto apprezzate, le iconiche lattine dell’energy drink più famoso al mondo. Sui ciclisti producono l’effetto della pozione magica di Panoramix: si sentono rinati, probabilmente è solo un effetto placebo.
I pacchetti turistici, gli eventi collaterali, si moltiplicano, fino a trasformare l’Ötztaler weekend di fine agosto in una kermesse vera e propria, una macchina da soldi di cui beneficiano tutti:, albergatori, ristoratori, esercenti, stakeholder vari.
Fino ad allora l’evento principale della zona era la coppa del mondo di Sci e la stagione invernale aveva un indiscusso sopravvento. Grazie all’Ötztaler e i suoi sponsor, lo diventa anche l’estate. La macchina organizzativa si mette in atto sempre con più anticipo: si inizia a parlare della “gara” già a gennaio. Le riunioni, i comitati, la ricerca degli sponsor iniziano mesi e mesi prima della data ufficiale. È l’evento della valle, tutti ormai lo sanno, tutti hanno capito che significato ha. Non soltanto economicamente.
L’Ötztaler si corre per metà su territorio austriaco, metà – o poco meno – su quello italiano. Dei quattro passi, due segnano anzi proprio il confine: il Brennero e il Rombo. Gli altri due, il Kühtai e il Giovo, si trovano invece rispettivamente in Austria e in Italia.
Sui gonfaloni e lungo i muri di contenimento dell’ultima salita, quella che da Moso in Passiria, lungo il versante italiano, conduce in vetta al passo del Rombo (2501 metri) si può leggere, scritto a caratteri cubitali, uno slogan: Ich Habe Einen Traüm (Io ho un sogno). Martin Luther King in versione tirolese e a due ruote. Una trovata geniale, che è diventata ben presto il motto ideale dell’Ötztaler Radmarathon. Fino a essere riprodotto in serie dappertutto: gonfaloni, t-shirt, mug, ombrelli (immancabili visto il tempo) e merchandising vario (TO BE CONTINUED)
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