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La Gara – Puntata 9: il senso di Bernard per la neve

Dicevamo: correva l’anno 1996. 386 concorrenti partiti in tutto. Era la prima volta che lo facevano dal centro di Sölden. Al traguardo, quattordici ore dopo, se ne conteranno in tutto meno della metà: 160. Sono tutti infreddoliti, stravolti, con il buio che, da ore, è tornato a impadronirsi della valle. Gli ultimi si vedono appena, e solo per via delle giacche bianche candide come il latte nel nero della notte. Sembrano fantasmi. La pallida ombra dei ciclisti che erano partiti soltanto quella mattina stessa all’alba.
Alla partenza si erano imbacuccati in maniera quasi comica: gli indumenti supertecnici e ultraleggeri per ciclismo che conosciamo noi oggi, all’epoca erano ancora decisamente di là da venire. Non c’erano mantelline in goretex o spolverini in paclite (tessuto capace di garantire una resistenza all’acqua pressoché totale, anche dopo ore sotto il diluvio: provare per credere). I copriscarpe e i guanti in neoprene – lo stesso materiale di cui son fatte le mute da sub – non si osava nemmeno immaginare cosa fossero: se pioveva il ciclista, indossava dei guanti lavapiatti sotto quelli normali, che spesso erano moffole. Per tacere delle leggendarie maglie intime termiche in lana merino che sarebbero state introdotte soltanto negli anni Duemila e che avrebbero letteralmente spopolato e rinnovato per sempre i guardaroba dei ciclisti. Il pedalatore per passione non era ancora insomma contemplato come target delle grandi aziende di abbigliamento sportivo. Il design accurato delle maglie e dei pantaloncini, l’idea di renderli non solo altamente performanti ma anche esteticamente gradevoli, come ad esempio avveniva già nell’alpinismo, veniva vista come totalmente fuori luogo. Una pretesa inutile, considerata del tutto superflua per uno sport che tanto “non avrebbe mai sfondato”.
Perciò toccava arrangiarsi con quello che si aveva o al massimo prenderlo in prestito a qualche altra disciplina. E ecco allora quei 386 improbabili uomini in calzamaglia. Tutto uno sfavillare di terribili giacchette catarifrangenti, k-way rimediati nell’armadio della mamma, cerate da pescatore, improbabili berretti in lana. Qualcuno, persino, in mancanza d’altro, si era presentato al via avvolto in un sacco della spazzatura: note le sue straordinarie proprietà termiche, un po’ meno quelle estetiche.

E, a proposito di berretti e passamontagna da sciatore, impossibile non pensare al grande Bernard Hinault. Figlio di un ferroviere bretone, aria burbera, fisico tracagnotto e muscoloso, il francese Hinault vinse ben 5 Tour de France, come solo i più grandi di sempre. Potremmo considerarlo, a tutti gli effetti, l’eroe per eccellenza di ogni concorrete dell’Ötztaler.
E tutto ciò è riconducibile a un fatto, a un episodio legato a un capo di abbigliamento, divenuto ben presto un’icona del ciclismo. Un passamontagna di lana rosso.
A una Liegi – Bastogne – Liegi, una delle cinque Classiche “Monumento”, Bernard si era presentato al via con indosso un’incredibile cerata da pescatore e quel surreale passamontagna rosso da sciatore, recuperati chissà dove.
Quel passamontagna rosso oggi è divenuto un simbolo del ciclismo: posso vederlo dipinto – assieme a Hinault ovviamente – sulla saracinesca del mio negozio di bici di fiducia a Milano, quando esco di casa.
Gli altri concorrenti della Liegi-Bastogne-Liegi, quella mattina, affollavano ancora la lobby dell’hotel in cui erano ospitati, il Ramada. Confabulavano tra loro sul da farsi: partire o non partire? Fuori nevicava, tirava un vento gelido e sferzante e – quel che è peggio – non si vedeva niente, nemmeno la strada. Chi glielo faceva fare?
Bernard aveva rotto le esitazioni per primo, calandosi il passamontagna sul viso e montando in sella. Aveva a mano a mano trascinato tutti, quel gesto, quel colore rosso, come quello di un faro nella nebbia, avevano fatto prendere coraggio anche agli altri compagni di sventura.
Hinault vincerà quella edizione leggendaria e di tregenda della Dojenne (così è soprannominata la Liegi – Bastone – Liegi: la decana, perché la più antica delle classiche). Il suo arrivo a Liegi, solo nella tormenta, con alle prime luci della sera è oggi storia del ciclismo. Non sentiva più le mani, il collo, le gambe, e forse nemmeno il cuore. Come un uomo di ghiaccio e senza più sentimenti però si era conservato fino all’ultimo: aveva tagliato il traguardo, tra la gente scesa in strada ad acclamarlo. Mi piace pensare gridassero anche a lui “Zuppe Zuppe!”.

Gli eroi di quella prima Ötztaler restano come tanti piccoli, grandi Bernard Hinault anonimi. Vestiti come lui, forti nell’animo come lui, temprati da un’avventura che non potranno più dimenticare.
Il Tasso, come veniva soprannominato Bernard Hinault per la sua condotta di gara passata tutta a scavare buche nel gruppo per poi uscire allo scoperto sul più bello, era riuscito a gestirsi e a resistere più di tutti, mantenendo attive le sue funzioni vitali.
Qui a Sölden i concorrenti, quando fa brutto, assumono la sua stessa espressione: sono anche loro tanti piccoli Tassi che scavano buche nella tempesta delle Ötztaler Alpen, che alzano il bavero contro le intemperie e tirano dritti magri con un passamontagna di lana grezza in testa. Vanno avanti, affrontando i marosi come vecchi lupi di mare temprati. I più intimiditi, ma che acquistano coraggio via via, chilometro dopo chilometro, sono i neofiti, le matricole della gara: coloro che partecipano all’Ötztaler per la prima volta.
Ma anche loro, un attimo dopo il colpo di cannone sparato nel centro di Sölden, sono già incredibilmente più forti di prima. Sono forti, infatti, di una forza che scorre loro dentro e che si chiama: no, nel letto non ci rimango. Io vado a sfidare i miei limiti.
Una lunga processione di lumini rossi – quelli dei led posteriori delle loro bici mentre si assiepano nella griglia di partenza – che pare quasi un albero di Natale in pieno agosto. Ich Habe Einen Traum: se sei partito, un po’ di quel sogno lo hai già trasformato in realtà (TO BE CONTINUED BY THE END OF AUGUST – HAVE A NICE HOLYDAY)
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