
Tag
La Gara – Puntata 10: Foglietti

La maratona nella terra dell’uomo di Similaun è una sorta di balena bianca con cui ciascun ciclista amatore ha bisogno di fare i conti. È come se si venisse qui, a Sölden, per verificare di persona se ancora ce la si può fare. Se si è ancora in grado di conservarsi, come Ötzi, fino al duecentotrentottesimo chilometro. Dunque anche io, quest’anno e per l’ennesima stramaledetta volta, ho fatto così.
E poi, se avessi voluto davvero andarmene senza partire, sapevo bene sin dall’inizio che avrei dovuto già farlo ieri sera: unico modo per evitare di trovare le strade chiuse al traffico dalle 5 della mattina per via del passaggio dei corridori E chi aveva voglia di ripartire per altri 400 chilometri, soltanto un’ora dopo averli già percorsi?
Ricordo, prima di essere andato a letto, di aver fissato a lungo un ciclista fuori dalla finestra del B&B, laggiù nel piazzale. Aveva un caschetto rosso in testa, era fermo da diversi minuti sotto la tettoia di quello che presumo fosse il suo hotel, per ripararsi dalla pioggia battente: esattamente di fronte a noi, poco lontano dalla stazione della funivia per i ghiacciai.
Stava parlando al telefonino con qualcuno, potevo vederlo gesticolare animatamente, un dito brandito verso l’alto nel vuoto. Non era certo un giovanotto, avrà avuto cinquant’anni come minimo. Chissà quante Ötztaler aveva alle spalle, chissà quante vigilie passate in preda a dubbi amletici esattamente come i nostri, alle strategie da attuare, a tutte le ipotesi da considerare. Me lo sono immaginato stilare una lunga lista su un fogliettino di carta, così come facemmo anche noi – io e i miei compagni alla prima partecipazione – con tutte le variabili elencate e, a fianco di ciascuna, la possibile soluzione.
Piove alla partenza? Mantellina e copri-scarpe. Nevica sul passo Giovo? Maglia intima termica a manica lunga, giacca invernale, guanti. Smette di nevicare e arriva il sole? Via manicotti, giù i gambali, zip aperta. Buco e devo fermarmi in mezzo al nulla? Due bombolette di CO2 e almeno 2 camere d’aria di riserva nel borsino sottosella. E via discorrendo.
Alla fine, questo processo di razionalizzazione estrema porta a dissipare i dubbi o quantomeno aiuta a sedarli. Il solo fatto di mettere tutte le variabili nero su bianco, distende la mente, è quasi una forma di ginnastica di riscaldamento. Una faccenda che mi ha sempre ricordato i lunghi fogliettini che preparavo, da ragazzino, la sera prima di un compito in classe: non li facevo tanto per consultarli poi una volta in aula da sotto il banco. No, li avevo scritti per fissare meglio i concetti nella mia mente, e per rilassarmi prima del d-day. In più, nel caso dell’Ötztaler c’è un altro elemento importante da non trascurare: la socializzazione. Il fatto cioè di aver condiviso quella prima volta tutte le le paure, i dubbi, i tic (ogni ciclista ha i suoi), ha contribuito a creare un momento di aggregazione e di unione molto forti. All’Ötztaler ho stretto alcune tra le amicizie più belle e profonde della mia vita.

No, sapevo già che sarei partito. Che mi sarei tuffato nel mare in tempesta. Se non altro, per vedere, che effetto fa prendere tutto quel vento in faccia e non limitarsi soltanto a sentirne parlare da chi ha “osato”.
E ora ecco qui, i pedali mulinano, ho inserito il 52-11. Il rapporto più duro, la discesa me la sono bevuta. Altroché.
Superata Lägenfeld, la strada smette di scendere: ora siamo in pianura, i ritmi si fanno meno forsennati, lungo i prati circostanti vedo corridori che si fermano per levarsi la mantellina, riporla nella tasca della maglia, pisciare e ripartire. Faccenda non semplice fare pipì in bici: devi fermarti per forza, anche i pro lo fanno. Allora accosti a bordo strada, anche senza scendere dalla bici, tiri giù e mingi.
Qualcuno ha già forato: con le strade così fradice, la carreggiata si trasforma in un’autentica discarica di sassi, terra, rami e pezzi di terriccio.
D’ora in avanti si inizierà però a sudare, l’inerzia e l’ebbrezza della velocità sono un ricordo. Ora tocca pedalare: a breve attaccherà la prima salita, il passo del Kühtai. Come detto, quest’anno, complice quella fottuta frana, lo affronteremo non dal suo classico versante, ma dieci chilometri più avanti, ad Haiming.
Ieri, a cena, giravano voci incontrollate di pendenze costantemente a doppia cifra, con strappi sopra il 16%. Dieci chilometri di sofferenza pura, insomma. Che il diavolo se li porti.
Un’autoambulanza sopraggiunge a sirene spiegate alle mie spalle, il gruppo di cui faccio parte si apre in due come una mela per farla passare: qualcuno deve essere caduto là davanti, porca miseria. Succede ogni volta: basterebbe stare più attenti alle borracce che cadono, a quello che si sposta senza guardare. La vista della barella, all’inizio di una gara, non è mai una bella cosa.
Un disastro: due si sono agganciati là davanti e sono finiti per terra, trascinando con sé, inesorabilmente, chi gli stava a ruota. Praticamente venti persone disarcionate.
Sguscio via a lato, li scarto, e tiro dritto. Un brivido mi corre lungo la schiena.

Mi vengono in mente i Manetta: un gruppo di ciclisti amatori milanesi che si raduna regolarmente due volte alla settimana, il martedì e il giovedì, nella periferia sud della città e che da lì da vita a una sorta di mini-gara clandestina lungo le stradine della bassa. Le cadute, tra i Manetta, sono all’ordine del giorno. Basta un errore in curva di qualcuno, una minima distrazione, uno sguardo di troppo, una borraccia che cade e si finisce tutti gambe all’aria. Sembra quasi una gara ad eliminazione.
Tra costoro, noti per essere i più veloci e malfamati della scena a due ruote locale, ci sono insospettabili professionisti e persino pensionati dalla gamba veloce. Spesso sono anzi proprio questi ultimi i più agguerriti: con tutto il tempo che hanno a disposizione per allenarsi, maturano gambe da tacchini.
Una mandria variopinta di velocipedi che si dirige a tutta birra, sollevando polvere e brecciolino, tra le risaie e le cascine del pavese e del Ticino, i Manetta.
Tutti zitti, pancia a terra e a ritmi da cardiopalma, gli occhi fuori dalle orbite e le vene del collo gonfie. Si litiga, si sgomita, si fa a sportellate tra i Manetta. Esattamente come a un arrivo di tappa del Tour de France per velocisti, con tanto di volata finale.
Esattamente come alla partenza di una Ötztaler, quando si corre come biglie impazzite lungo una strada veloce e dritta.
Non mi devo distrarre: alleggerisco di un dente e sto a ruota ora di quello davanti, un olandese, direi dalla bandierina che intravedo sulla sua schiena. Vorrei agganciarlo con un uncino e non mollarlo più. Va che è un piacere, ed è uno spasso godersi la sua scia. Ma in un attimo mi accorgo che non è quella la mia velocità: pedala di quel poco più veloce rispetto a quanto io mi possa permettere se voglio arrivare sano e salvo al traguardo. In bici trovare il gruppo giusto cui accodarsi non è semplice, è un’arte: un misto di sensibilità che si affina con il tempo, di occhio e di sana incoscienza. Ciascuno ha un ciclista gemello nel gruppo che va leggermente più forte di lui e dietro le spalle del quale può farsi trasportare in capo al mondo, senza patimenti. Per me non è decisamente questo. Lo lascio: lo vedo partire e scomparire all’orizzonte come un motoscafo in mezzo al mare. Fatico troppo a restare con questi bestioni, finirei svuotato ancora prima di iniziare a fare sul serio.
Nel frattempo si è alzato il vento, come previsto: ovviamente contrario, teso, cattivo. C’era da aspettarselo. (TO BE CONTINUED)
(BREAKING NEWS: TO FOLLOW MY NU ADV AT THE ÖTZTALER 2022, CHECK MY IG STARTING STARTING FROM FRIDAY AUGUST 26)
Leggi la Prima Puntata
Leggi la Seconda Puntata
Leggi la Terza Puntata
Leggi la Quarta Puntata
Leggi la Quinta Puntata
Leggi la Sesta Puntata
Leggi la Settima Puntata
Leggi l’Ottava Puntata
Leggi la Nona Puntata