La Gara – Puntata 11: CCCP

Lo scrittore Joseph Conrad era solito domandarsi: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”. Verità illuminante e ben nota agli scrittori, ai poeti, e a gli artisti, e poi forse a qualche psicologo.
Io ci aggiungerei però anche ai ciclisti finisher dell’Ötztaler. Quelli che, in accappatoio a fine gara, appoggiati alla balaustra del balconcino adorno di fiori, bagnati dall’ultimi temporale, quelli del proprio albergo, osservano gli ultimi attivare. A Sölden, come già detto, c’è una sola strada: gli hotel affacciano praticamente tutti su quella, e non puoi fare a meno di guardare in trance ipnotica tutti gli ultimissimi concorrenti che “sfrecciano” verso il traguardo. Come tanti piccoli pellegrini, al buio: sono quelli delle 13 o 14 ore di gara, si affannano con le ultime energie rimaste e le luci delle loro bici accese verso la Freizeit Arena. Il punto d’arrivo dove si consegna il chip e in cambio, dopo aver salito una lunga scalinata in metallo dove le tacchette delle scarpe schioccano rumorosamente risuonando sinistre in tutta la valle, si ritira la maglia agognata.
Piangono, si accasciano, non credono ai loro occhi, i finisher. Più tardi arrivi (l’ultimo è il vero primo), più l’emozione è forte. Li osservi tutti, li segui con la coda dell’occhio, gioisci ti commuovi per cuscino di loro, anche – e forse soprattutto – più che per te. E poi per la gente di Sölden che sfida le intemperie fino a tarda ora per accoglierli con i campanacci e lo “Zuppe Zuppe!”. Da nessun altra parte succede nulla del genere. È come se l’entusiasmo della folla fosse direttamente proporzionale al ritardo dei corridori: più si fa tardi, più gli applausi crescono. L’ultimo, scortato dalle safety car dell’organizzazione a sirene spiegate sarà seguito e portato fino al traguardo come l’eroe assoluto di giornata. Il più grande di tutti.

Ci sono spunti, guardando dalla finestra, dunque, volendo, per decine e decine di racconti, di storie incredibili (alcune ve le racconterò, promesso), di analisi psicosociologiche sul bisogno del fare fatica e sulla fatica come medicina o terapia dei mali incurabili dell’animo umano.
C’è una celeberrima canzone dei mai compianti abbastanza CCCP di Giovanni Lindo Ferretti che dice: “Amarti m’affatica, mi svuota dentro. Qualcosa che assomiglia a ridere nel pianto”. È la foto di questo momento magico del finisher dell’Ötztaler visto dal balcone.
Si viene a soffrire qui per essere vivi. Si lotta fino alla fine, contro il carro scopa che chiude definitivamente i giochi (un segugio e obbliga gli ultimi a dare l’anima o li carica su), per restare o tornare a “essere”. Hedieggrianamente: cioè, essere appunto autentici. 5000 e passa metri di dislivello macinati in una sola giornata in sella, come i 5000 e passa anni attraverso i quali l’uomo di Similaun si è conservato sino a nostri tempi.

Questi pensieri mi colgono mentre scollino il Kühtai e non potrebbe esserci momento peggiore per averli. Il Kühtai è “soltanto” il primo dei 4 passi di cui si compone questo massacro a pedali in terra tirolese. Un nome che sa di giapponese più che di austriaco, a dire la verità. Qualcosa che ti vuole azzannare come un tifone monsonico d’oriente con torrenziali quantitativi di acqua e onde invalicabili (per tornare all’amato Conrad). Fa freddo, un freddo porco e non è proprio il caso né la situazione propizia, come detto, per pensare ai finisher e al balconcino fiorito della mia pensioncina. Siamo solo all’inizio. la temperatura si approssima allo zero, i concorrenti sono ancora intabarrati come o quasi alla partenza: nessuno, durante la sfiancante salita, ha osato nemmeno abbassare la zip della mantellina. Ci si guarda con apprensione: nessuno osa dirlo ma la discesa da questo prima duemila metri, con 2 gradi, atterrisce tutti. E che discesa. Dal Küthai e dalle sue malghe è impossibile procedere a velocità ragionevole: è un lungo rettilineo dove i più intrepidi si dice tocchino e superino i 100 km orari. A bordo di un mezzo con ruote larghe al massimo 3 centimetri. Biglie, schicchere, impazzite. Dadi rotolanti dalla montagna in cerca del numero fortunato, molto rolling e poco stones. Insomma fuscelli, con gambe nude e braccia al vento, che barbellano e corrono il rischio di non tenere dritto il manubrio: effetto shimming (risonanza) lo chiamano. E fa tragicamente rima con Shining. Trattasi di oscillazione del manubrio di bici, moto o scooter, anche a basse velocità. In pratica: le mani iniziano a non stare ferme e per quanto tu lo afferri, e lo tenga stretto, lui – il manubrio – ondeggia, la ruota anteriore perde aderenza, se freni, e ti irrigidisci, come è naturale che sia, la sgommata è dietro l’angolo e il viaggio di sola andata al creatore pure. Dio che paura la discesa in questo stato. Al ristoro in vetta, trangugio un zuppa calda: un lungo bicchiere di tetrapack marchiato Red Bull pieno di rinfrancante liquido denso e tiepido con stelline di pasta navaganti come barche a vela impazzite, del tutto simili a quelle Buitoni che mangiavo a bambino quand’ero malato. Mi faccio coraggio, un tedesco mi sbatte le mani con forza sulla schiena e sulle gambe, schiaffeggiandomele letteralmente, mosso a compassione dal mio tremore incontrollato. “Alles gute!”. Mica tanto, ma è ora: tocca scendere. Aggancio pedale, ripenso alle maglie da finisher e agli ultimi che giungono, a Conrad, a Cuore di tenebra e – soprattutto – a Tifone e mi getto nella picchiata. Corro via sotto il paravalanghe lungo chilometri, le canaline dello scolo dell’acqua fanno sobbalzare il mio mezzo, l’oscillazione però grazie al cielo non arriva. 80 all’ora, che Dio me la mandi buona.

Durante un’edizione di qualche anno fa, un concorrente italiano, in crisi di freddo nel nevischio, venne soccorso e ospitato da una famiglia nella propria baita, proprio qui, in mezzo ai boschi del passo del Kühtai. Lo nutrirono e lo rifocillarono come fosse un profugo, mossi da pietà o – meglio – da rispetto profondo: quello per la fatica e per il tentativo fatto di superare il grado zero, il momento dell’All is lost in cui era caduto. Poco importa a loro che sia fallito.

Quanto ai concorrenti, ritirarsi, alla gara, non è mai faccenda semplice. Certo, si può fare, anzi talvolta si viene obbligarti a farlo: se si sforano per esempio i cancelli orari previsti dall’organizzazione. Severissimi. Si tratta di cinque o sei checkpoint disseminati in punti chiave del percorso e che si devono raggiungere e superare prima di un dato orario. Se non ce la si fa, se si fora, se si cade, si è fuori. Si viene invitati perentoriamente a restituire il chip (senza maglia da finisher) e a salire su uno dei numerosi autobus-scopa. Non un’esperienza facile.

Chi viene costretto a staccare il numero dalla schiena, in questa corsa, lo fa solo quando davvero non ha più alternative, quando ha raggiunto il suo All is lost e ha capito anche che la luce non arriverà e che quello, per lui è un punto di non ritorno. Può capitare, va messo in conto prima di partire.

Hanno le facce lunghe, i ritirati dalla gara. Qualcuno piange, altri imprecano. Alcuni hanno avuto guai meccanici, non dipesi dalle loro volontà: magari hanno rotto il cambio, il deragliatore è finito tra i raggi sfasciando tutto. Altri, invece, hanno forato squarciando irrimediabilmente il tubolare e non lo possono più cambiare, qualcuno è caduto e si è fratturato una clavicola o, peggio ancora, un femore: i punti esposti, sono, per i ciclisti, alle i più sensibili. Tornerà a casa senza maglia di finisher e per di più con un osso rotto.

Una borraccia caduta, la traiettoria di una curva presa male, uno spartitraffico non visto: in questa gara nulla può essere trascurato e basta una minima disattenzione a mandare tutto a farsi benedire. Non è un gioco, non è calcio, non è basket, men che meno tennis. Qui si soffre per davvero. Resistere, preservarsi, questi sono gli imperativi categorici di ogni concorrente della gara. Ma, se si arriva, poi, la gioia che si proverà al traguardo sarà ineguagliabile. Una scarica di adrenalina indescrivibile, un vero e proprio orgasmo emotivo che quasi sempre conduce alle lacrime. Una forma di catarsi, per giunta collettiva, del tutto simile a quella delle antiche tragedie greche. Attraverso il dolore, la sofferenza e le emozioni più forti e ancestrali, ne si uscirà cambiati, purificati, mondati in qualche modo da tutto ciò che è superfluo. Ci si sentirà più robusti, più sicuri, come si fosse vissuti per migliaia di anni. Questa è la gara. (CONTINUA)

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