La Gara – Puntata 14: Dritto per dritto

Il collegamento più rapido tra la Val Passiria e l’Alta Valle Isarco è il Passo Giovo. 40 chilometri di ampie curve e circonvoluzioni del bitume. Quando, lungo gli ultimi chilometri, il paesaggio si apre, dai tornanti si gode una vista spettacolare. A mio modesto parere, una delle più belle in assoluto di tutto l’Alto Adige. Si tratta di quella su tutta la sottostante Val Passiria.

Sull’altro versante la strada sale attraverso boschi e pascoli dalla cittadina di Vipiteno. La capitale morale, dicevamo, dello yogurt (non solo ai mirtilli). Strada costruita oltre cento anni fa, quella del passo di Giovo. Dunque antica come tutti i più spettacolari passi dell’arco alpino (ingegner Carlo Donegani, con Spluga e Stelvio su tutti, docet). Ancora oggi la strada verso il Giovo rappresenta un’importante sfida per qualunque grimpeur o aspirante tale (ad esempio, noi oggi concorrenti dell’Ötztaler) che si rispetti. Nel 1994 proprio qui fu clamoroso l’exploit di Marco Pantani. Lo fece in salita, certo, come sempre nel suo repertorio. Ma soprattutto in discesa. Lungo questa serpentina di tornanti a tomba aperta, lo scalatore romagnolo toccò i 100 km all’ora, cappellino (i caschi non erano ancora obbligatori per l’UCI) e divisa bianca e blu della Carrera indosso. Asfalto viscido, 10 secondi di vantaggio sul gruppo allo scollinamento del passo, 40 alla fine della discesa. Picchiata affrontata a culo in fuori, una posizione soltanto sua, di Pantani, inventata, creata, messa in scena sul palco dello sport quel giorno. Opera del più grande scalatore (e grandissimo discesista) di tutti i tempi. Il Pirata aveva le chiappe pochi centimetri sopra la ruota posteriore della sua bicicletta, fuori dalla sella, voleva raggiungere un aerodinamicità perfetta, forse sgraziata, ma tremendamente efficace e, soprattutto, tutta sua. Quel giorno vinse la tappa del Giro e il giorno dopo si ripetè sulle arcigne rampe d’amore del Mortirolo. Fu l’anno di nascita, all’anagrafe delle due ruote, di Pantani Marco da Cesenatico (biologicamente nato all’ospedale di Cesena il 13 gennaio del 1970, da mamma Tonina e papà Paolo).
In realtà il versante che da Vipiteno sale al passo Giovo è di una regolarità quasi disarmante: 16 km quasi sempre tra il 7 e l’8%, ma è in grado – fidatevi – di logorare fin nel midollo. Non è di facile interpretazione, come a prima vista potrebbe sembrare. Soprattutto nel contesto di una gara dove hai già percorso più di 150 chilometri e scalato oltre 2000 metri di dislivello. E – piccolo particolare – nel 90% dei casi hai fatto tutto questo a velocità doppia rispetto ai tuoi standard, preso dall’adrenalina della Gara.
Insomma, sul Giovo, cominciano i cazzi.
Io lo soffro sempre, stavolta di più. Il mio cuore pare impazzito: il cardiofrequenzimetro (che Pantani, fortuna sua, non aveva) mi dice 200 pulsazioni al minuto, le supera. Oddio, infarto fulminante. Intravedo i gonfiabili con i tori rossi della Red Bull in cima: ma no. Non è affatto la cima! Sorpresa malefica: non è la vetta del Giovo, ma il ristoro. Fa talmente freddo e sto talmente male, che accosto: mi faccio dare una zuppa calda (quella con gli anellini di pastina che navigano dentro, anche questa sembra in tempesta). Il cielo è plumbeo, tremo ovunque, il gelo m’è entrato nelle ossa, come l’acqua che trapassa un tessuto di tela. Non ho opposto resistenza alcuna. E, in questa terza – devastante – salita, credo di aver consumato tutte le calorie di una vita. Sono un’anima in pena, convinto dell’infarto, cerco di scaldarmi con la zuppa, ne rovescio metà a terra per le mani che tremano e l’altra metà la ingurgito bollente. Le pulsazioni non scendono, mi gira la testa. Che faccio? Sto morendo? Qui da solo così, su questo stramaledetto passo tra la Valle Isarco, lo yogurt, e la Passiria, nota per il suo celeberrimo Martellatore?

Già, il Martellatore della Val Passiria. Una figura dello spirito qui nel Südtirol. Un irredentista al contrario, noto per la particolare vena balistico-espolosiva (da cui il nome “martellatore”) che scandiva il ritmo della sua giornata nonché della sua antica valle. Al secolo Georg Klotz, ma per gli “amici” più semplicemente “Jörg”. Fu terrorista indipendentista altoatesino, si produsse in numerosi attentati dinamitardi, come detto, in nome della “libertà del Südtirol“, per il quale si autodefiniva un combattente, un Freiheitskämpfer. Fin da piccolo, fin da quando un amico di famiglia definì il mio idolo musicale adolescenziale Bruce Springsteen, con disprezzo, “Il martellatore della Valpassiria” (evidentemente disturbava il suo orecchio fino), la storia di Jörg il Freiheitskämpfer mi ha sempre affascinato. Così come tutte le storie di terre di confine, e di assurdi e inspiegabili bisogni di indipendenza fino a farne una ragione di vita. Negli anni 1960, entrato in contatto con un altro attivista indipendentista, Sepp Kerschbaumer, decise di militare nell’organizzazione fondata da quest’ultimo, il Befreiungsausschuss Südtirol(BAS – letteralmente: Comitato per la Liberazione del Sudtirolo). Sotto questa “bandiera” partecipò a numerosi attentati esplosivi, tesi a colpire lo Stato italiano per ottenere il distacco dell’Alto Adige dall’Italia. Culmine della sua folle azione “politica” fu un episodio noto come Notte dei fuochi: la notte tra l’11 e il 12 giugno del 1961, diverse esplosioni si succedettero nell’oscurità, svegliando la popolazione delle valli bolzanine. Gli ordigni erano stati disposti dal nostro Martellatore e dai suoi uomini lungo i tralicci dell’alta tensione (ma non riuscirono a mettere in ginocchio la distribuzione della corrente della provincia) e uno, addirittura, e per fortuna, inesploso, posizionato nei pressi di un cavalcavia. Simpatico il nostro Martellatore…


Mentre le pulsazioni, complice la zuppa, annaffiata con dell’ottima Red Bull Cola, iniziano a tornare “civili”, mi sovvengono nuove domande. Una in particolare, mentre dalla cima del Giovo contemplo la val Passiria e i suoi tornanti, che dovrò percorrere, sotto di me.
Ma cosa sono le strade, in fin dei conti? E cosa i passi? Metafore dell’allineamento impossibile, dell’arrivare da un punto A a un punto B senza passare dal via, aggirare un ostacolo (spesso una montagna), a furia di scorciatoie: i tornanti. I tornanti sono un modo per salire consentendo di affrontare e superare la stramaledetta forza di gravità all’uomo: la strada dritta farebbe precipitare a valle qualunque veicolo, e dunque il tornante le viene in soccorso per cercare di andare su mettendo in atto una serie di circonvoluzioni barbine. Una strada alpina è come un dialogo arrampicandosi sugli specchi, pur di spuntarla, con la montagna. Mi ha sempre dato questa impressione: ho invidiato come Donegani sia riuscito a concepire quella sequenza folle di curve e controcurve, cunicoli e gallerie che da Campodolcino salgono verso la diga del Monte Spluga. C’è un punto in cui il dialogo si fa chiaramente impossibile: non diamoci neanche del “tu”, pare dire la montagna all’ingegnere stradale più visionario d’Italia: con te non voglio avere nulla a che fare! E invece l’ingegner Carlo studia, non dorme la notte, non si da per vinto, impartisce ordini a geologi, studiosi di movimenti tellurici e dei cedimenti strutturali eventuali. Non si capacita di quella mancanza di comunicazione (in tutti i sensi) tra lui e la roccia viva. Lui voleva andare su e si rifiutava di pensare che la montagna non gli rivolgesse parola. E allora sale. Sale dove non si può. Quattro, cinque curve a U, una sopra l’altra, da fare impressione: le più fotografate forse della storia del ciclismo. Persino di più, degli altrettanto elettrici e dalle intense vibrazioni al basso ventre, del versante che da Prato allo Stelvio sale lungo all’omonimo passo, lungo la valle di Trafoi. Carlo non andava per il sottile. Andava dritto per dritto.

Ecco, sul Giovo, dimenticate tutto questo: i tornanti sono leonardeschi, immersi per tre quarti del tracciato nel bosco. Salgono dolci e docili.
Mentre scendo sfrecciando nel bosco e riprendo vita e sensi, con il gruppo ancora folto: la bagarre, o meglio il saltare di ogni strategia è ancora di là da venire: accadrà, a breve, sul Rombo, tra una decina di chilometri, rifletto su tutto questo, sulla discesa di Pantani, sul senso ultimo del “salire”, per poi appunto soltanto scendere. Che senso ha?
Mi si affianca un giapponese, mi supera, fresco come una rosa, un fisico da fantino: gambe affusolate, vita la metà della mia. Supero un inglese, poi un tedesco cui scoppia la camera d’aria in discesa, barcolla ma resta in piedi, poi sgancia i pedali, impreca e scende. Meno male. Mi domando come faranno sul Timmelsjoch costoro. Una sfilata di anime in pena cosmopolita, questo siamo. Una globalizzazione della fatica, questa Ötztaler Radmarathon. Un fenomeno che avviene solo qui: le altre granfondo danno sempre un possibilità di scelta. Quella tra percorso medio, per gli incerti e insicuri, talvolta persino un corto (per i meno preparati), e, poi, ovviamente, un lungo. Only the brave. Alla Gara, qui nella terre del Sililaun, no choice. O salti il Rombo con accorgimenti e pazienza certosina, come Carlo Donegani, o salti in aria tu, come suggerirebbe, forse più saggiamente, Jörg, il Martellatore. In ogni caso: dritto per dritto. (CONTINUA)

“La Gara” è una web-novel a puntate che pubblico online bisettimanalmente, se ti è piaciuta questa, torna tra qui qualche giorno. Mentre qui sotto, ci sono tutti gli episodi precedenti, enjoy:

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