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la gara- puntata 15: La strada

Si chiama “Strada Alpina del passo del Rombo”. Ed è una strada leggendaria, tra Italia e Austria, tra la Val Passiria, a pochi chilometri da Merano e la valle dell’Ötz, nel Tirolo. Sullo sfondo: le Alpi venoste.
Una strada a dir la verità poco nota forse perché nascosta, ma ricca di fascino e storie da raccontare. Una via di collegamento frutto di una lunga gestazione e che subì diverse interruzioni in corso d’opera: fu inaugurata soltanto nel 1968, ma i lavori per realizzarla iniziarono ben prima del secondo conflitto mondiale. Per lungo tempo fu il passaggio più importante tra l’Austria e l’Italia. Si lavorava sodo, anche dodici ore al giorno, in condizioni che spesso erano assolutamente proibitive. L’altitudine del passo, 2509 metri, rendeva tutto estremamente difficoltoso: si poteva lavorare soltanto da maggio a novembre, perché in inverno gli accumuli di neve erigevano muri anche di dieci metri. Ancora oggi la strada rimane chiusa per la maggior parte dell’anno: viene liberata solo a tarda primavera-inizio estate soltanto con l’aiuto delle fresatrici.
Eppure, sul Rombo si lavorava volentieri: c’era un bel clima. Le paghe erano alte, e l’idea di partecipare alla costruzione di qualcosa di monumentale e fantasmagorico facevano il resto. Tutti erano disposti a sopportare questa strana fatica con gioia. C’è qualcosa sin da subito di speciale su questa montagna, tutti lo avvertivano.
Qualcosa che nemmeno gli ingegneri e i progettisti quando giungevano in visita, dopo i numerosi tornanti, ancora sterrati, a strapiombo sulla val Passiria, a verificare l’avanzamento della loro opera folle, riuscivano a spiegarselo. È come se quella montagna salisse due volte: una prima sul versante confinante dirimpettaio del passo Giovo – quello dal quale noi concorrenti dell’Ötztaler siamo appena scesi – l’altro invece più misterioso, foriero di leggende, tra cui quella dell’uomo di Similaun che non lontano da lì ha giaciuto intatto per cinquemila anni. Infatti, la strada quando giunge in prossimità del passaggio da una montagna all’altra, delle due che compongono il Rombo, si infila su un piccolo ponticello e si sposta completamente verso nord. Solo allora tu puoi capire dove dovrai ancora procedere. La seconda ascesa, quella più dura, inizia qui, a Shönau, piccolo borgo di poche case, a duemila metri, solitamente viene posto un piccolo e provvidenziale ristoro. Dove ti senti di potercela fare ma sai che il peggio deve ancora venire.
Ci sono passato davanti ieri in auto: lo stavano allestendo sotto la pioggia mista a neve, sono entrato in un piccolo bar e mi sono fermato sulla terrazzina coperta a osservare i tornanti che risalivano il dorso tozzo e ghiacciato di quella montagna.

E il tema del sogno, il “traum”, che però, in questo caso, ha anche una strana e sinistra assonanza con la parola italiana “trauma”, è il filo conduttore ricorrente, da sempre, di questa strada.
Un sogno, cioè, che richiede anche un piccolo, grande sforzo – il trauma, appunto – per essere realizzato.
Una volta il Rombo era noto per essere un passaggio segreto che solo in pochi conoscevano: già i pastori dell’età della pietra e le loro mandrie, di cui esistono tracce nella zona di Obergurgl a partire dal 6.300 a.C., potrebbero aver utilizzato questo passaggio. Più avanti, il sogno divenne quello dei celebri portatori di Gerle dell’Ötztal, oltre che dei banditi e dei contrabbandieri locali, che osavano valicare questa montagna, lungo sentieri impervi. Non potevano che privilegiare la via più breve, e nascosta, che non coincideva quasi mai con quella più agevole. Un po’ come noi ciclisti oggi, del resto.
Dalla cima del Rombo, si poteva scendere a piedi, lungo ripidissime mulattiere, utilizzando animali da soma per il carico, fino a Moso e quindi a San Leonardo. Il che voleva dire: Merano. Una via di commercio e di traffici assolutamente fondamentale. Superare il confine, sapersi destreggiare quassù, resistere alle intemperie e al gelo, alla tentazione continua dello sconforto e del lasciarsi andare, in altre parole “sopravvivere”, significava realizzare un sogno. Come per i protagonisti del romanzo di John Steinbeck Furore, anche i viandanti che si avventuravano qui, lo facevano per cercare una terra promessa.
Il monumento al “Contrabbandiere”, che noi incontreremo nella lunga discesa verso Sölden, dopo un lunghissimo rettilineo dove si toccano le massime velocità, è un piccolo omaggio a questi eroi di un tempo. I soli che conoscevano davvero questo passaggio segreto tra l’Austria e l’Italia (e viceversa) e che, in qualche misura, avevano anche imparato ad amarlo, a sentirsi a casa propria. Il Rombo è stato per anni una palestra per il moderno Alpinismo, fatta di tentativi, fallimenti, storie anche tragiche, ma che alla fine hanno sempre aperto nuove vie alle generazioni successive. I contrabbandieri ne sono stati i pionieri.
Tornando al traum, esso è ciò che per definizione non si realizza mai: altrimenti sarebbe realtà e non, appunto, sogno. Il traum è ciò verso cui tendiamo e aneliamo costantemente, ma che forse non raggiungeremo mai (ancora una volta il tema della terra promessa di Steinbeck che torna). E questo passo magnifico e altissimo, situato dove sembrerebbe impossibile metterci un valico, diventa allora la metafora perfetta di un sogno. Può trasformarsi in un incubo, e lo farà certamente, prima di essere raggiunto. Lungo i ripidissimi tornanti che dal chilometro 20 conducono fino al tunnel, senza tratti per respirare, soffrirete le pene dell’inferno. Ma poi, come per incanto, una volta attraversata la galleria, l’incubo muterà nel più dolce dei sogni.
Il passaggio dalla val Passiria, selvaggia, costellata di torrenti e cascate, alla più aperta e civilizzata valle dell’Ötz, è di quelli che restano dentro. È difficile trovare una salita, e una conseguente discesa, con una varietà di panorami, vegetazione, flora e fauna simile. I benefici di questa fatica, per certi versi disumana e innaturale, sono allora molteplici: ci renderanno più forti, più consapevoli di ciò che volendo possiamo fare. Dalla Hochalpenstrasse Timmelsjoch usciremo temprati nel fisico ma, soprattutto, nella mente: dopo il Rombo, si è diversi. Viene voglia osare di più, di cercare salite più alte e più lunghe, ovunque si trovino. Se amate questo sport e le montagne, non potete non venire qui.

Piove, più saliamo dopo l’ultimo faro nella tempesta di Shönau, più viene giù. S’è fatta battente e siamo solo attorno ai 2000 metri, fa talmente freddo che sicuramente in vetta nevicherà. E poi anche e soprattuto, per varie ragioni sia di confomrazione orografica che di correnti ascensionali, una volta che si valica questo passo incredibile, di là – in Austria – c’è un un altro clima. Sempre più freddo e peggiore. Cosa potrà essere oggi che già di qui nevischia ora, Dio solo può saperlo. Supero il primo dei tornanti impossibili, non ci voglio pensare.
Ho indossato tutto quello che potevo indossare: manicotti, smanicato, scaldacollo in pile invernale, mantella in gore-tex che avrei dovuto utilizzare solo per la discesa. Ora, una volta in cima, cosa potrò mettermi ancora? Sarà davvero dura stavolta, la più dura sicuramente della mia vita. Una situazione così estrema non riesco ancora a focalizzarla, anche perché ora la fatica dell’ascesa mi costringe a concentrarmi e a non pensarci.
Arriva il tunnel, quello che la sera chiudono come fosse una cella frigorifera. Entro e piango, di commozione. Provo emozioni contorte, ma molto forti. Mi ci lascio andare. Perché è il simbolo della fine della salita. Da qui in avanti, sino a Sölden, sarà solo discesa. Ma questa volta sarà proprio la discesa il vero e supremo ostacolo da superare: a zero gradi con il nevischio e il corpo fradicio, 25 chilometri a 50 all’ora portano l’organismo a percepire una temperatura corporea di diversi gradi sotto lo zero. Ipotermia quasi certa. I concorrenti si sono diradati, qualcuno accosta lungo le pareti del tunnel – almeno è all’asciutto – per attendere che il carro scopa lo raccolga. Chi lo fa trema come un profugo, ha alzato bandiera bianca. Quanto a me, non sento più le mani, e il vento mi sferza la faccia che quasi fa male, mi fa a brandelli zigomi, e mascelle. Allora mi fermo anche io: ma soltanto per chiudere la zip della mantellina, almeno quella ancora mi rimane, alzo lo scaldacollo fino agli occhi bloccandolo a stento, per via delle mani intirizzite, togliendomi per un attimo i guanti, con gli occhiali. Ho paura. Cazzo, se ho paura. Stavolta ne ho proprio tanta. Ci siamo, nessuno mi verrà ad aiutare, l’ho capito. Non ci sarai tu papà, che un tumore ha portato via due anni fa, con te venni qui per la prima volta. Ma non ci sarà nemmeno il mio mentore e meccanico che mi ha consigliato tante volte su mille granfondo. Non ci sono Max, non c’è A C che chissà ora dove è, e soprattutto se il vino o la grappa rimediate in qualche rifugio, in modalità borraccia di Sanbernado, possono avergli infuso il coraggio necessario. Non ci sarà, dopotutto, nemmeno la possibilità di tornare indietro: qui non mi viene più a prendere nessuno. Devo scendere da solo. Devo affrontare la bufera che non avrei mai voluto affrontare. Sono nudo, senza orpelli, senza appigli, senza finte difese. Aggancio il pedale stringo il casco ed esco dal tunnel allo scoperto in mezzo a una nebbia fitta come nemmeno in pianura padana a gennaio. Sono le nuvole basse. Non vedo nulla. I contorni della carreggiata sono sgranati come in una fotografia in bianco e nero fatta su pellicola, il buio della sera che sta scendendo è avventura, le ombre dei ciclisti davanti a me nelle loro mantelle sono piccole chiazze di colore su una tela bianca e uniforme. Però che bello, Dio santo. Dove mi trovo? Perché sono qui? Cosa, nella mia vita mi ha condotto oggi in questa situazione onirica e vagamente pittorica? Ho le gambe fradice e la salopette zuppa non facilita certo le cose: pesa il doppio, la discesa è gelida e invisibile. So che c’è un lungo rettilineo dove si prende una forte velocità – i concorrenti più arditi, qui, toccano persino i 100 all’ora – penso a lui, all’uomo di Similaun, penso a Helmut ed Erika, che se lo trovarono davanti, all’improvviso, senza aspettartelo. Penso ai suoi tatuaggi misteriosi sparsi sul corpo, come quelli di un antico maori primordiale. C’è qui tutta la magia di questa gara incredibile e irripetibile, si condensa tutta in quest’attimo. Questa discesa me la ricorderò per tutta la vita: è una gara nella gara. La sto facendo da solo, senza aiuti, senza ipocriti messaggini di amici o fidanzate, senza pensieri della mamma. E va dannatamente bene così. Con la tempesta in faccia che scalda il cuore e che mi costringe a pensare che quando arriverò giù non sarò più quello di prima. Che nella mia vita di tutti i giorni, ci saranno anche i profili enormi e improvvisi di queste mucche che mi passano davanti ora palesandosi solo quando, a pochi metri dal loro ventre caldo e dalle loro mammelle, la nebbia si dirada, e le scorgo evitandole per un pelo. Le luci della Maüstelle (la dogana), sono rosse, gialle verdi, sono aloni nella bruma austera e fradicia della tormenta. Cosa ho mai visto di più bello in vita mia?

Sotto la tettoia fradicia e gocciolante della Maüstelle, dove le auto sono costrette a fermarsi per pagare il pedaggio per passare dall’Italia all’Austria e viceversa, si è formato un capannello di ciclisti. Cercano tutti di recuperare le forze necessarie per arrivare al traguardo: qui, dopo un ultimo “dentino” velenoso in salita di un paio di chilometri, siamo a metà discesa. Mancano circa 20 chilometri. La scena è, se possibile, ancora più sulfurea e poetica, con le luci posteriori rosse delle bici poggiate qua e là che lampeggiano nel vuoto. Sembra un albero di Natale senza soluzione di continuità. Una New York invernale con i lumi dei grattacieli illuminati. A un tratto tra gli strati di nebbia si fanno meno spessi, e intravedo Max. Ma sì, è lui! Un volto amico che trema come una foglia. Mi saluta come mi avesse ci fossimo appena visti: non è così ci siamo persi da tempo, dalla salita del Giovo almeno. Le sue condizioni non sono esattamente tra le più rassicuranti: trema come avesse 40 di febbre e biascica parole senza senso. Dietro di lui compare la sagoma vichinga di un altro concorrente, è un atleta enorme, peserà 90 chili per due metri d’altezza, ridacchia. Alza le sue mani possenti, indossa guanti da sci, e con quelli infilati inizia massaggiare con vigore Max, dalle caviglie al collo, a tratti lo schiaffeggia proprio per farlo tornare in sé. La scena è comica, se non fosse che non c’è niente da ridere. L’omone, un tedesco molto probabilmente, uno di quelli che ieri tracannavano birra nel centro di Sölden, cerca di ravvivare il suo fuoco: a un tratto, si offre di mettere a Max persino una delle sue mani calde e generose sotto la maglia lungo la schiena per scaldarlo ulteriormente. Max declina la premura, mi guarda come passassi di lì per caso: amico mio, sto ultimo ballo lo facciamo assieme, gli dico. Gli ultimi chilometri di discesa verso l’arrivo, sono freddi, acidi, e le gambe girano ormai solo perché devono farlo. Freno per rallentare la bici e costringermi da una parte a muovere così le gambe anche in discesa, dall’altra a piegare le dita delle mani che sembrano ormai insensibili. Sono in evidente stato di ipotermia anche io, come tutti. Una manica di deficienti, infreddoliti e a rischio di rompersi l’osso del collo che per di più ha pure pagato per farlo.
La temperatura, chilometro dopo chilometro, per fortuna si alza: siamo di sicuro sopra lo zero di qualche grado, piove e basta. La strada è viscida, superiamo l’ultimo para-valanghe dove stento a vedere cosa ci sia per terra: una borraccia caduta a qualcuno. Penso a Pantani nel diluvio della discesa del Galibier quando prese la maglia gialla nella tappa con arrivo al Les Deux Alpes del 1998. Sogno i suoi muscoli, la sua forza d’animo, il suo furore agonistico, e poi vedo il ponte sull’Ötz, le sue acque se possibile mi paiono ancora più minacciose a rischio piena. Vedo ora le case, la stazione dei pompieri, e poi ecco il nostro bed & breakfast, con il mio Citroen Berlingo grigio parcheggiato fuori dove l’ho lasciato ieri sera: mi commuovo a vederlo. Per me stesso, per la mia piccola impresa, per la forza d’animo che non avrei mai creduto, non dico di possedere, ma nemmeno di mettermi a cercare.

Il toro rosso è il simbolo della Rebd Bull. Bevanda nazionale austriaca che fa da title sponsor all’Ötztaler Raadamarathon
Quando lo vedi arrampicarsi di lontano in un paese altrimenti abitato da orsi, su sfondo blu e campeggiante tra due ali di folla che attende l’ultimo come il primo, non puoi che commuoverti. L’arrivo ha qui tutti i crismi di quelli di una tappa del Tour de France e se anche alla fine non riesci a scendere quasi dalla bici, dopo averci tenuto il culo sopra incollato per quasi dodici ore, non fa niente. Ti raccolgono con il cucchiaino. Nello specifico due infermieri mi si fanno incontro, non mi reggo in piedi sono bagnato fin nell’ultimo dei ventricoli del mio cuore che però pulsa di gioia come raramente m’è capitato. Mi avvolgono in una coperta termica che conservo tutt’oggi tra i cimeli a memoria nell’armadio di casa. Mi trascinano a forza dentro il garage coperto dove trovo decine di anime in pena come me, mi offrono un bicchiere di té caldo ma non riesco nemmeno ad afferrarlo:lo rovescio per intero su me e il concorrente che ho di fianco. Ridiamo, dio se ridiamo. È l’a fine dell’inferno è l’inizio del paradiso. Sono 238 chilometri e 5500 metri di dislivello. Ora vorremmo gettarli al vento: domani saranno la bandiera rossa per riscriversi all’edizione dell’anno prossimo. L’Ötztaler è una droga sapientemente cucinata da mani esperti, un mix di metanfetamine naturali e sogni distratti che ognuno di noi ha, di vite da redimere, di cuori infranti e da ricomporre. È la vita, è il sogno, il traum che vale uno scossa di adrenalina o un orgasmo prolungato a rilascio lento. Ne parlerai per giorni, la manderai a memoria per mesi.
Oggi mi è arrivato il link che viene spedito mesi dopo dall’organizzazione a qualunque partecipante: è quello che rimanda al video dell’edizione appena trascorsa. Rivedersi non attenua le emozioni. L’ho mandato il loop almeno dieci volte di fila. Il cuore era sempre lì. In gola. La testa sempre là, tra i ghiacciai del Similaun. Nella terra dei miracoli e dei desideri.
“La Gara” è una web-novel a puntate, se ti è piaciuta, qui sotto, ci sono tutti gli episodi precedenti, enjoy:
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