L’esperto di sogni.

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Il sogno e il carattere.
Ernst Lorenzi è un uomo non tanto alto, robusto e con i capelli in perenne disordine.
Me lo presentano alla Freizeit Arena – l’arena del ghiaccio di Sölden, dove si ritirano i pettorali – , mi chiede di cosa scrivo, glielo racconto. Sembra incuriosito: “Il carattere di un ciclista?? Cosa è?”. Come gli si fosse accesa una strana lampadina nella testa: giusto, il ciclisti hanno un carattere!
Chiama allora subito la sua assistente al cellulare, bofonchia qualcosa in un tedesco ruspante e sicuro. Nicole, la ragazza, torna dopo 30 secondi neppure. Su sue precise disposizioni, mi ha portato una copia di un curioso libro dal formato stranamente orizzontale (lo vedete qui sopra).
È il libro che Ernst ha scritto, ormai diversi anni fa, sull’Ötztaler, la sua creatura, la sua magnifica granfondo. La più dura d’Europa: 238 km e 5.500 m. di dislivello.
È questo il motivo per cui, come ormai ogni anno, sono qui a Sölden, nel cuore del Tirolo austriaco, a due passi dal confine italiano, posto proprio lassopra, sul passo Rombo, a 2.500 metri di altitudine. Là dove c’è la “Maustelle”, il casello della dogana, appena ristrutturato. Oggi è un edificio dall’architettura avveniristica, design perfettamente integrato con la natura circostante (in cima c’è anche un museo dei motori, questa è una strada che amano moltissimo anche i motociclisti infatti). Insomma, mix perfetto tra ciò che è antico, le montagne secolari e ciò che è futuro.

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Mai più!
Ernst mi chiede se domani parteciperò anche io alla sua gara. Ovvio che sì, gli rispondo, e sarà anche la mia terza Ötztaler. Mica la prima.
Sorride come se sapesse perfettamente quale è il meccanismo perverso che sottende a questa autentica mattanza a pedali riservata a “soli” 4.500 partecipanti. All’Ötztaler si accede infatti solo tramite sorteggio (tantissime le richieste di partecipazione, troppe per garantire sicurezza per tutti).
Meccanismo perverso dicevamo. Funziona più o meno così:
ogni anno, appena tagli il traguardo, completamente distrutto e prossimo allo svenimento, ti dici in cuor tuo, più che convintamente: “mai più!”. Appena arrivi in albergo, e depositi la bici (spesso fradicia d’acqua) in camera, una lucina ti si riaccende nella testa. Dapprima debole, poi più vivida, dice: “però, però… aspetta un attimo”. Infine, quando sei a cena, immerso nelle endorfine e nell’alcol, la luce diventa all’improvviso un riflettore puntato sul futuro: “quando aprono le iscrizioni per l’anno prossimo?” domandi al commensale euforico.
È fatta. Sei caduto nel tunnel dell’Ötztaler. Non ne uscirai facilmente.
Ernst ovviamente sa benissimo tutto questo, e infatti mi sorride beffardo.
Ma ormai, per lui, preso da mille impegni, è ora di andare. “Tomorrow chance of shower from noon” mi dice stavolta in inglese, quale volesse essere sicuro che capisca.
Cavoli! “From noon”, ha detto. Da mezzogiorno? Un po’ prestino per prendere l’acqua.
A un tratto mi faccio io scuro in volto e improvvisamente pensieroso.
Ernst mi saluta con una vigorosa stretta di mano, di quelle da farti vibrare tutta la spalla e mezzo busto – da domandarsi se domani la pagherò sul Rombo – e mi dice che attende con ansia una copia del mio “Il carattere del ciclista” (che, annuito vobis gaudium magnum, uscirà a inizio 2018 anche in Germania per Piper Verlag).

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Ancora un po’!
Domenica 27 agosto, 6:45 del mattino.
Nonostante le precedenti due edizioni cui ho partecipato, sono qui ancora. Per la terza. Di questa fatica non ne ho abbastanza. Ne voglio ancora!
Avvio il garmin, appena taglio il tappetino per il rilevamento cronometrico della partenza, e parto. So a cosa andrò incontro, ma in un certo senso ancora una volta non del tutto. Che perversione.
Il cielo è sereno, il sole sta sorgendo. A quel che accadrà dopo mezzogiorno ci penseremo poi. Adesso è bello.
Il primo passo da affrontare è Kühtai, con i suoi 2000 metri di altitudine è uno dei più belli di tutta Ötztaler. Selvaggio quanto basta, immerso dapprima nel bosco poi aperto su un lago chiuso da una diga: qui spesso mandrie di mucche incuranti dei partecipanti attraversano la carreggiata muggendo: via di qui, questa è casa nostra!
Scollino e affronto la ripida e lunghissima discesa. Qui – sotto i paravalanghe – si toccano velocità folli, da capogiro. Un amico mi racconterà di aver visto balenare sul Garmin (e come diavolo avrà fatto a vederlo?!) i 108 km orari. Cose da pazzi.
A valle, dopo qualche chilometro di pianura, si raggiunge Insbruck, attraversando persino le rotaie del tram. Da qui attacca il Brennero, quasi 40 km di falsopiano. Interminabili. La parte – a mio avviso – meno avvincente di questa incredibile odissea che compio per la terza volta. Mentre lo salgo ho occasione di pensare a tante cose, a come sono cresciuto come ciclista (ricordi la prima “Novecolli”?), a perché sento il bisogno di fare queste cose e a come la bici mi abbia migliorato come persona. Ripenso al mio primo libro,  “Ma chi te lo fa fare?”, in cui scrissi della mia prima Ötztaler, quando – a causa del meteo avverso – diedi forfait dolorosamente. Adesso forse non lo rifarei. Penso ai prossimi chilometri: raggiunto il Brennero, si entra in Italia. Un certo moto d’orgoglio patriottico si accende nei partecipanti connazionali, lo posso percepire. Mi fermo al ristoro, mangio e bevo a volontà. So che poi ne avrò bisogno.
Il sole è ormai alto nel cielo. Siamo circa a metà percorso, ma il meglio deve ancora venire. Discesa rapida e, superato Sterzing (Vipiteno), mi piace dirlo all’austriaca, si torna a salire. Terzo passo, i 16 km del Giovo. Lungo la cui discesa, tecnicissima, Marco Pantani costruì il suo primo capolavoro a 90 all’ora, con il culo in fuori. La famosa Lienz – Merano al Giro d’Italia del 1994. Quella volta il Pirata vinse in discesa. Lui che sarebbe diventato il più grande scalatore di tutti i tempi.

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Le 8 montagne. Anzi le 29.
Raggiunto San Leonardo, piccolo paesino innocente della Val Passiria che per il resto dell’anno vive di un tranquillo anonimato, tutto cambia.
Il silenzio – come sempre – è calato sugli scalatori inesorabile, qualche contadino, mosso a compassione, annaffia con la canna i partecipanti. Nessuno reagisce, qualcuno si ferma, qualcuno barcolla, qualcuno altro prova ad alzarsi sui pedali. Il sole – e siamo ben oltre il “noon” di Ernst – è ancora ampiamente protagonista.
Scalo i rapporti e inizio la mia salita. Sarà lunga 29 km pari a quasi 2000 metri di dislivello positivo. E, soprattutto, la affronto dopo aver già pedalato per 180 km e aver coperto un dislivello pari a 3500 metri. La distanza di una granfodno alpina lunga.
Ma è il Passo Rombo, bellezza. O – più semplicemente, e sempre in austriaco – Timmelsjoch. Il simbolo dell’Ötztaler. 

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Del fare fatica.
Il Rombo, dicevamo. Una metafora – io credo – dell’arrivare. Per arrivare devi fare fatica. Sempre. Arrivare dappertutto: nella vita, in bicicletta, raggiungere un posto che si ama. Solo se sai sopportare la fatica e uno sforzo “in più” oltre il normale potrai agguantare ciò che davvero desideri. Lo sai tu, lo sanno gli organizzatori dell’Ötztaler.
E cosa è che si desidera? Io credo la bellezza. In senso lato: ciò che colma l’animo, appaga la mente, ci travolge e – anche se per per poco – ci regala pace.
Tutto questo non lo si potrebbe mai raggiungere senza aver prima fatto un po’ di fatica. Non sarebbe “Bellezza”.
Ciò che è bello non lo si ottiene mai facilmente, non è “a portata di mano”, non deve esserlo. Non è dietro l’angolo, non si coglie con un semplice gesto, non si percepisce senza sudore. Perché ciò che colma l’animo è – e deve sempre essere – un po’ più in là. Oltre quel promontorio, girato quel capo, dietro quella montagna misteriosa.
Dove le onde non si sa bene quanto sian alte e il vento quanto forte. Chi va in barca a vela lo sa bene. C’è sempre un punto oltre il quale devi lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Rischiare. Perché capisci che non puoi controllare quello che ci sarà. Gli devi andare incontro tu. Ecco il passo del Rombo, il gran finale – assolutamente geniale – di questa gara, il colpo di teatro definitivo per ogni ciclista che si rispetti, è tutto questo. Una grande metafora dell’andare oltre.

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Verweile doch! du bist schön!
Saper confezionare l’andare oltre è il mestiere di Ernst, Lorenzi. L’esperto in sogni (Traum in tedesco, parola che campeggia un po’ ovunque per le strade di Sölden).
Ernst sa come si prepara l’impasto onirico per i ciclisti, quale è la psicologia che vi si annida dietro. Questo saper andare oltre, farsi un po’ del male (ma alla fine, per farsi del bene) sono il suo pane. Lui vende questo. E come lo prepara lui non lo sa preparare nessuno.
E così, se lungo gli interminabili tornanti del Timmelsjoch, vi capiterà di leggere “È già finito il tuo sogno?”, non abbiatene a male, non è uno schiaffo sadico al vostro morale. Ma è anzi una “carezza”. La cura di Ernst nel rendervi più bello – schön in tedesco – ciò che vi aspetta.
Verweile doch! du bist schön! – “Attimo, fermati. Sei così bello!” -faceva dire Goethe al suo Faust. E cosa c’è di più vero? L’attimo è fatica, sofferenza, voglia di guadagnarselo. E poi, beffa delle beffe, passa in fretta. Occorre fermarlo finché si è in tempo. Lungo i tornanti del Rombo, tra le sue rocce scoscese e le sue maglie – quelle delle edizioni passate – strappate. E pazienza se, nella successiva discesa, prenderò acqua – Ernst aveva ragione – arriverò fradicio e felice. Lavato di ogni fatica. Certo di essere nuovamente qui, esattamente tra un anno. 

Photo credits: ©ciclistapericoloso