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escarabajos
O Narcos o Grimpeur.
Escarabajos. In spagnolo – anzi, in colombiano – significa “scarafaggi”.
Li chiamavano così per via di quello strano stile di pedalata, tutti ripiegati sulla sella e con le mani chinate sul manubrio. Millepiedi scarpinanti, aggrappati a cento montagne e a mille sogni.
Venivano da lontano, da oltreoceano, dove si poteva soltanto salire. Sin da quando eri bambino: “la bicicletta era il mezzo di trasporto dei poveri, se eri ricco non avevi una bicicletta”. Ma quasi tuti erano poveri, dunque si faceva in fretta.
In Europa era difficile abituarsi a questi scarafaggi a due ruote. Sembravano antiestetici, insetti del ciclismo, non atleti: “pensavano che venissimo direttamente giù dagli alberi”. Piccoli, leggeri, dalla pelle color olivastra e dagli occhi scuri scuri. Quasi degli unni venuti a colonizzare uno sport così elegante e proprietà privata esclusiva dell’antico continente.
Tutta colpa del primo a inaugurare quello stile così inconsueto e poco ortodosso di seduta, Ramón Hoyos. Nato a Medellín nel 1932 e deceduto soltanto pochi anni fa, nel 2014. Segno che buon sangue e cuore andino non mentono.
Questa è la storia di una dinastia formidabile di scalatori, scarafaggi bellissimi e irresistibili, naturalmente propensi all’ascensione. Esteban Chaves, per dirne uno, è soltanto l’ultimo discendente di questa stirpe.
Scarafaggi, dicevamo. O piuttosto eroi, accomunati da una sola cosa: il loro luogo d’origine, la Colombia. Terra povera e difficile, dove si muore per niente (chiedere a Rigoberto Uran, il cui padre venne ucciso per errore in una sparatoria tra narcotrafficanti) e si corre per tutto. Dal pane, all’amore, alla vita.
Terra resa tristemente famosa – proprio negli anni ’80, e di quegli anni parleremo – da un uomo solo (e purtroppo anche al comando), da molti venerato come benefattore. Sto parlando di Pablo Escobar (en passant, consiglio caldamente la visione della serie tv “Narcos” in onda su Netflix).
Quindi, riassumendo: se volevi aver salva la vita in Colombia, o trafficavi coca o diventavi un grimpeur. Tertium non datur.
Pionieri di tutto.
La prima dinastia di scalatori andini capace di imporsi in Europa risale agli anni ottanta, ma prima in tanti si erano cimentati in patria. La Vuelta a Colombia, un giro maledetto, sotto la calura afosa e umida di casa, tra le piantagioni della futura coca e oro del paese e le cime infinite delle Ande. In Colombia, stare due minuti fermi in pianura è praticamente impossibile.
Alla Vuelta a Colombia, la gente prendeva ad assieparsi sui dirupi, in attesa dei ciclisti, giorni prima. Le donne accorrevano coi foulard dai loro eroi e gli suturavano le ferite, facevano a gara per asciugargli il sudore, esibito poi come un trofeo. La fatica dei piccoli fachiri – scarafaggi che salivano come formiche sugli sterrati ripidissimi – commuoveva.
Ben presto però si capì che c’era bisogno di qualcosa di più. Guadagnarsi la fama internazionale. Sbarcare dall’altra parte del mondo, dove il ciclismo contava davvero, in Europa.
Un nuovo antico continente. Ci volevano il Tour de France, il Giro d’Italia e la Vuelta a Espana.
Lo raccontano oggi così, davanti a una bottiglia e quattro sigarette, i più grandi grimpuer colombiani. A radunarli, compiendo una ricerca accurata e meticolosa nel loro passato, ci hanno pensato quelli di Rapha. Brand inglese di abbigliamento per ciclisti esigenti, dedito alle chicche come pochi altri.
Forse perché i britannici sono ancora i soli quasi vergini di ciclismo, e proprio per questo capaci di stupirsi come bimbi. Quasi lo guardassero, il ciclismo, per la prima volta.
E loro – gli scarafaggi, – davanti alle telecamere si commuovono, raccontano la loro storia, anzi le loro storie. Perché sono tante, una più bella dell’altra.
Come quella di “Cochise”, all’anagrafe Martín Emilio Rodriguez Gutierréz, il primo ciclista colombiano professionista ad andare in Europa. Alla corte dell’italiana Bianchi-Campagnolo, a fare il gregario di Gimondi. E niente grilli per la testa: “non potevo fare il leader, correvo per Felice” dice quasi fosse un’ovvietà. Fu lui ad aprire la strada agli altri scarafaggi. Capelli lunghi, sguardo da indio, occhi umili e piccoli. Martín il suo soprannome lo scelse un giorno guardando un film americano alla TV. C’erano degli indiani, uno di loro – quello che aveva scelto come eroe – si chiamava “Cochise”. “Cochise! Cochise! Cochise”, Martín lo ripete tre volte anche oggi, davanti alla sapiente telecamera di Ben Ingham, il regista di questo meraviglioso video.
Gli anni Ottanta non muoiono mai.
Ma la vera nidiata di grimpeur colombiani capaci di scalare il mondo fu quella degli anni ottanta. Tra l’80, l’85 e ancor più l’87. L’anno in cui lui, il più grande di tutti – lo riconoscono unanimemente come tale, seduti al tavolo, oggi i suoi “colleghi” – Lucho Herrera, vinse la Vuelta. Stavolta a España, non Colombia. La Vuelta, quella vera, quella che si sta correndo proprio in questi giorni in terra iberica.
Lucho quella volta non si limitò a vincere la classifica generale, primo colombiano della storia a vincere un grand tour in Europa, ma si aggiudicò anche la maglia di miglior scalatore. Trionfando nella tappa regina ai Lagos de Covadonga, e guadagnandosi così per sempre il titolo di “Rey de las Montañas”. Un nome che sa di impresa, che profuma di rispetto guadagnato sul campo, che sa di rivincita: “va bene, eravamo arrivati in Europa, ma non ci avrebbero fatto uscire dal gruppo, lo sapevamo. Dovevamo sputare sangue”. E Lucho ci riuscì, sputò tutto quello che aveva. L’unico modo per farlo che conosceva fu scattare, senza contare su nessuno. Scappò via, uscì da quel gruppo che voleva segregarlo e che invece non lo riassorbì più. “Colombia! Colombia! Colombia!” gridò allora il cronista. Ancora tre volte, come per Cochise. Quasi non ci credesse davvero a quell’impresa.
Sono passati 30 anni da quel giorno. Rapha ha deciso di celebrare quella straordinaria vittoria con una bellissima maglia celebrativa e ricostruendone la storia, pezzo per pezzo. Per farlo sono andati, armi e bagagli, direttamente sul posto, in Colombia. Hanno visitato luoghi, villaggi, salite. Hanno esaminato antichi filmati da archivi polverosi, scomodato vecchi ciclisti, le loro famiglie, i direttori sportivi.
Ne valeva la pena. Ci hanno restituito 20 minuti di pura magia.
Hanno fatto quella che credo si possa oggi definire “cultura del ciclismo”. Ripotare cioè alla luce ciò che altrimenti andrebbe perso per sempre. O, nella migliore delle ipotesi, regalare qualcosa di speciale a chi ancora non la conosce.
Esteban e futuro.
“Oggi è più facile pedalare, le occasioni per farlo sono molte di più che un tempo” raccontano i giovani ragazzi intervistati che si allenano nel velodromo. Volteggiano come sufi, con la maglia giallo fluo.
Lo ripetono i piccoli campioni delle squadrate che si allenano in strada, tra la vegetazione tropicale e la terra limacciosa.
E anche quando cadono a terra, battezzando l’asfalto rugoso con un tonfo sordo, con la pelle che si apre irrimediabilmente a brandelli e magari una clavicola che fa “crac”, riescono lo stesso a non perdere il sorriso.
“Se fai questo sport pensando ai soldi, sei fottuto” dicono. Devi prima di tutto amarlo, che vuol dire saper soffrire, capire che i momenti duri fanno parte di questo gioco, anzi ne sono forse la parte più importate. In qualche misura devi essere prima consapevole della vita di fatica che ti sei scelto. Solo così, magari un giorno, potrai sognare di diventa famoso come Esteban.
Esteban è Chaves, secondo al Giro d’Italia l’anno scorso, con gli occhi da bambino e i genitori che si congratulavano con Vincenzo Nibali, che gli aveva appena soffiato il titolo. Esteban, per questi giovani ciclisti colombiani, è l’esempio di colui che ce l’ha fatta. Tutti vorrebbero essere come lui. Il bambino che gli racconta la favola più bella “Dreams come true”. I sogni si avverano. E se lo dice Esteban, allora c’è da crederci davvero.
“Se qualcuno diventerà un campione, allora vorrà dire che l’avrò salvato dalla strada” dice il direttore sportivo dei ragazzi. Certo, o Narcos o Grimpeur.
Del resto, in una terra come questa, il tempo stringe. O cadi o ti rialzi.
Guardate questo bellissimo film di Ben Ingham con calma, godetevelo. Poi sforzatevi di continuare a pensare che il ciclismo, in fin dei conti, sia solo uno sport come tutti gli altri. Sono convinto che non ci riuscirete.
Perché questo video è un piccolo grande gioiello, una perla da conservare con cura, magari nel cassetto di un vecchio armadio.
Uno di quelli dove spesso, nelle antiche case di campagna, si annidano alcuni scarafaggi.
“Abrazos”
Director: Ben Ingham
Executive Producer: Simon Mottram
Per saperne di più: Rapha
Photo: Lucho Herrera (by courtesy of Rapha).