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Les Italiens al Tour: 5 – Nensinì
Tour de France: -10
Mancano una decina di giorni e ci siamo. Sarà Tour de France. Finalmente.
Che questi Mondiali di calcio, senza Italia, un po’ mettono il magone, non trovate? Niente italiani all’estero, niente impresa da cuori in gola, niente viaggi e avventure da migranti trasognati. Che questo forse sono sempre stati i nostri connazionali al Tour de France. Migranti oltralpe. In cerca di fortuna, ma anche, talvolta, capaci di rimediare scoppole irrimediabili. Che l’Italia quando va fuori dai propri confini pare non conoscere vie di mezzo.
Oggi facciamo la conoscenza di un altro nostro compatriota che ha indossato la maglia gialla portandola fino a Parigi. Uno di quelli meno noti e proprio per questo più belli e segreti. “Pellaccia da discesa” era soprannominato (e così si chiama anche una sua poco nota, ma bellissima, biografia, su cui ho studiato notti intere). Il suo nome all’anagrafe: Gastone Nencini da Bilancino. Anzi Gastone “Nensinì”, come lo chiamavano qui, in Francia. Vinse il Tour de France nel 1960. Primo italiano dopo l’era doro di Coppi e Bartali. Lo vinse soffrendo. Non tanto per la fatica , quanto per la tragica perdita del suo avversario più bello e forte. Roger Rivière, caduto da un dirupo, durante una tappa, e rimasto paralizzato sempre. Dopo quell’incidente, a Gastone sembrò mancare l’aria. La vittoria, diceva, non aveva più lo stesso intenso sapore. Quasi avesse trionfato con riserva. Gli pareva insomma di non meritarsela fino in fondo quella maillot jaune, di aver dovuto rinunciare a duellare sul più bello.
Siccome invece io penso che quella maglia gialla Gastone se la fosse guadagnata eccome, sul campo, a lui ho dedicato un intero capitolo del mio ultimo libro “Gli italiani al Tour de France” (Utet), fresco di stampa. Ve la anticipo qui. Poi però andate in libreria che ne vale la pena.
Enjoy.
Fiorentino!
(Gastone Nencini, Colombey-les-Deux-Églises, 16 luglio 1960)
Mi rosicchiava secondi in ogni momento, mi stava alle calcagna, mordeva il freno: già mi manca sentirlo che mi seguiva disperato giù in discesa, che si sforzava di non toccare le leve dei freni giù per i tornanti più impervi e scoscesi dei Pirenei, che, instancabile, non mollava mai anche quando tutto sembrava compromesso. Ché io in discesa sono una brutta bestia: difficile starmi dietro quanto impongo il mio ritmo appena la strada si inclina verso valle. Chiedere a monsieur Anquetil.
Perciò io Rivière lo rispetto e lo compiango. E così, se domani a Parigi va come tutto deve andare, se Monsieur Goddet mi consegnerà, come capita ad ogni vincitore della Grande Boucle, il mazzo di fiori: beh io quel mazzo glielo renderò e gli dirò che il legittimo proprietario non sono io. Ma Roger Rivière. Quel ciclista che tanto aveva lottato per il primo posto, per lo meno quanto me. Questo Tour avrei dovuto vincerlo battendomi con lui ad armi pari, sul campo, fino all’ultima maledetta tappa, quella di domani. E invece tutto è finito alla quattordicesima. Troppo presto.
Amavo Roger come rivale più di ogni altro per un semplice motivo: perché aveva fegato. Aveva intuito, lui per primo, quanto io fossi in forma in questa edizione, e non solo. Sapeva anche quanto avessi bisogno di vincere questo Tour de France. Eppure, nonostante tutto questo, non si era mai perso d’animo, aveva lottato, s’era battuto come un satanasso, aveva persino sognato a un certo momento di vincerla lui la Grande Boucle. Tanto che io, prima di quella dannata caduta che l’ha reso paralizzato, avevo un diavolo per capello: troppo poco il vantaggio su di lui in classifica generale. A nulla valevano le rassicurazioni che la sera mi davano i miei compagni in stanza e ilcta cena. Io, in cuor mio, lo sapevo: Roger poteva ancora riprendermi.
Quando ha dovuto ritirarsi, volato giù da quella scarpata lasciando tutta la Francia e il mondo con il fiato sospeso, non era che a un minuto da me in classifica. Bazzeccole.
Lo preferivo, Rivière, al suo connazionale, a quel codardo normanno: e del resto la strada, con le sue infinite sorprese pronte a giungere ogni giorno come fiori appena sbocciati, me lo aveva fatto apprezzare. Il rivale ideale: fraterno compagno di fatiche, completo e pericoloso come pochi altri. Appena poteva non mi lasciava un metro.
(…)
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