Les Italiens al Tour: 6 – Jimondì

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Felice con Felice.

Martedì 17 luglio presenterò il mio libro “Gli italiani al Tour de France” assieme a Felice Gimondi, in quel dell’Officina Bianchi di Bergamo (sotto, locandina, con tutti i dettagli). Perciò oggi, vi parlerò di lui. Dalle pagine del suddetto volume vi anticiperò qualcosina, il resto vi toccherà venire a sentirlo di persona. Fino a Bergamo?
Fino a Bergamo.
Tema: il bagaglio. Culturale, ciclistico e anche, soprattutto, fisico. Sì, lei, la valigia. Che negli anni ’60 aveva tutto il suo fascino, un po’ come il “baule”, stipato – almeno nella mia famiglia – fino all’orlo di ogni genere di cosa, vettovaglie spesso incluse, per le lunghe trasferte agostane al Sud Italia.
Aprire il baule, o la valigia, significava aprire immediatamente uno scrigno segreto, vedere una luce in fondo al tunnel del viaggio (soprattutto se all’estero), sentire un’improvvisa ventata di aria italiana, anche quando si era distanti migliaia di chilometri da casa. Complice l’ammorbidente, l’essenza, magari alla lavanda come quella di cui è profumata a luglio la Provenza, del detersivo utilizzato. Oppure merito di alcune semplici foto, magari di tua moglie, appiccicate accuratamente sul rivestimento interno del tuo bagaglio, come faceva proprio Gimondi durante le gare.
Felice era uno metodico, estremamente ordinato: la sua valigia era perfettamente organizzata, nulla era fuori posto là dentro, nemmeno le foto di Tiziana.
E che dire dell’altro suo “bagaglio”, quello ciclistico? Attrezzato, completo, versatile al pari. In salita, a cronometro, persino nella cronoscalata finale dove vincerà definitivamente il suo Tour. Ideale per indossare la maglia gialla. Quello che conta. E tenerla fino a Parigi. Doveva partire da gregario, del capitano della Salvarani, Vittorio Adorni. Doveva.
Tornò da leone. Trionfando nella Grande Boucle, 5 anni dopo l’ultimo degli “Les Italiens” a riuscirci: Gastone, “pellaccia da discesa” (di lui abbiamo già parlato) “Nensinì”.
Avversario di Felice il celebre, amatissimo e anche sfortunatissimo, “Poupou”, Raymond Poulidor.
Ma ora mi taccio che parla lui. A te il microfono Felice. Ci vediamo poi martedì, a casa tua.

Valigia.
(Felice Gimondi, Aix-les-Bains, 9/10 luglio 1965)

Avevo parlato dolcemente ma con fermezza: vado al Tour, devo partire, me l’hanno chiesto e non posso rifiutare. Non mi aveva fatto finire, aveva sorriso e il suo sguardo si era sciolto come un cielo dopo il temporale. Quasi gongolante. Tornato a casa avevo preso le sue foto più belle e le avevo appiccicate nella parte interna della valigia. Così adesso, quando sento nostalgia di casa, quando ho bisogno di calore umano, di carezze, di affetto femminile, allora le guardo. È lei il mio sole. Mi rincuora, mi allevia la fatica e le pene, mi fa dimenticare la lontananza dall’Italia. Un solo sguardo del viso di Tiziana, con un filo di luce che proviene dal comodino, mi dà forza. A volte le parlo, i miei compagni ci sono abituati e non ci fanno più neanche caso: le chiedo consigli, le mostro la cartina della tappa, le esprimo i miei dubbi sul percorso, le mie incertezze. I suoi occhi rispondono, allora, fermi e convinti. Placano i miei timori meglio di ogni strategia di squadra.
(…)
Povero “Poupou”, gli va sempre storto qualcosa. Ho ancora negli occhi le immagini della Grande Boucle dell’anno scorso. Quando nella tappa da Briançon a Monaco Raymond aveva alzato le braccia al cielo convinto d’aver vinto. Si sbagliava anche quella volta, perché mancava ancora un giro di pista al traguardo. Che disdetta. Come il più ingenuo degli esordienti, Poulidor non se n’era accorto, credendo fatalmente troppo presto di aver trionfato, di esser riuscito nell’impresa di rubare il Tour de France al freddo rivale Jacques Anquetil. Niente da fare neppure quel giorno, Jacques, infinitamente più scaltro di lui, più strategico ed esperto, si era accorto dell’errore per tempo. Lo aveva passato mentre questi, incredulo, riprendeva a pedalare dopo aver smesso. Non lo aveva guardato nemmeno negli occhi. Grazie a quel successo di tappa, Anquetil si era guadagnato un minuto d’abbuono, un minuto sufficiente a vincere l’intera posta in gioco: il Tour de France. Il quinto in carriera, il quarto consecutivo: un’epopea, una leggenda che ha fatto la storia del ciclismo. Per Raymond, invece, la più bieca delle sconfitte, il peggiore trauma di sempre, una maledizione da cui era impossibile riprendersi. Senza quell’errore, senza quel fatale momento di distrazione, sarebbe stato lui il re, almeno una volta nella vita.
Quando la sera, in hotel, ho incrociato lo sguardo di Raymond, in fondo agli occhi ho potuto vedergli affiorare uno strano scoglio. Un faraglione inaspettato là dove nessuna mappa nautica lo segnalava, capace di far inabissare anche il più robusto dei vascelli. Sa che domani ha forse l’ultima chance per rifarsi sotto e insidiare il mio primato, una cronoscalata, una salita contro il tempo, ma sa anche che difficilmente ce la farà. Glielo si legge in faccia. Chi l’ha incontrato stasera dice di averlo visto vagare come un fantasma per le sale deserte dell’hotel.
CONTINUA A LEGGERE “GLI ITALIANI AL TOUR DE FRANCE” (UTET 2018)

PRESENTAZIONE CON GIMONDI: MART. 17 LUGLIO, 18:30 BERGAMO (Officina Bianchi)
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e per chi se la perdesse, rilancio:

PRESENTAZIONE A MILANO: GIOV. 19, 19:30 BICICLETTE ROSSIGNOLI (C.so Garibaldi 71) con Paolo Tagliacarne di Turbolento