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Vive la France!
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Sabato 7 luglio, finalmente, sarà Tour de France.
Dopo le prime avventure degli italiani in maglia gialla, credo sia giunto il momento di fare le presentazioni ufficiali. Monsieur Le Tour, ecco i miei lettori. Cari lettori, questo è Monsiuer Le Tour, anche detto “La Grande Boucle” per via della forma – un ricciolino, anzi un ricciolone – che disegna sulla cartina geografica non appena viene tracciato. La prima volta fu su un tovagliolo.
L'”Hexagone”, questa la forma della Francia, un esagono toccato per intero, angolo dopo angolo. Tappe folli: anche 400 km ciascuna, corse a partire dalla mezzanotte fino al tramonto, minimo. Scoglio dopo scoglio, mare dopo mare, vento dopo vento, castello dopo castello. Dalla Bretagna alla Provenza, dalla Vandea ai Vosgi, dalle Alpi, giù per i Pirenei.
Si partiva a nord, per ritornare nuovamente a nord, passando da Dunkerque, che sarebbe diventata celebre durante il secondo conflitto mondiale.
Il primo italiano a vincere il Tour de France fu Ottavio Bottecchia (1924, e bis nel 1925), aveva fatto il soldato, quella fatica gli sembrò una vacanza. L’ultimo a trionfare è stato Vincenzo Nibali (2014). Nel mio ultimo libro “Gli italiani al Tour de France” (Utet) li racconto tutti, e anche chi ci è stato in mezzo. Chi ha vinto e chi ha perso. Chi ha indossato la maglia gialla anche per un solo giorno e chi l’ha persa per strada, fino anche a coloro che mai l’hanno vista, nemmeno con il binocolo. Il tutto come fossero pagine strappate dai loro diari, veri o immaginari, dalle trincee della Grande Boucole, e incollate una di fianco all’altra.
Ma ecco a voi lui, il vero protagonista del libro, le Tour in persona. A te la parola, sottomarino giallo.
Tour de France: premiata ditta Desgrange & Lefèrve
Il Tour de France è nato sabato 20 dicembre 1902. A inventarlo fu il direttore di un giornale, “L’Auto-Vélo”, di nome Henri Desgrange. Si dice che quel giorno fosse a pranzo con un collega, Géo Lefèvre, in un ristorante di lusso nel centro di Parigi, di quelli tutti tovaglie di pizzo e posate d’argento, dove se non sei vestito in un certo modo non c’è verso di entrare. I due gozzovigliano rumorosamente, poi all’improvviso i loro bicchieri avevano iniziato a cozzare l’uno contro l’altro in insoliti e ripetuti brindisi. Il maître aveva dovuto invitarli più volte alle buone maniere: non furono pochi quelli che, stizziti, si alzarono da tavola senza aver toccato cibo, stufi di quel trambusto sgradevole. Paonazzi e chiassosi Desgrange e Lefèvre avevano continuato a brindare imperterriti, lasciandosi andare a grasse risate. Ma era comprensibile, stavano realizzando il sogno di una vita.
A un tratto uno dei due aveva estratto di tasca un sigaro e se l’era accesso. Quello era il segnale, l’opera era compiuta. Avevano appena partorito l’idea più pazza del secolo: una corsa in bicicletta su e giù per la Francia, in lungo e in largo attraverso le pianure e le montagne dell’“Hexagone”, il loro paese dalla curiosa forma ad esagono. Desgrange e il suo compare erano tornati in redazione dopo quel pranzo con gli occhi luccicanti e l’aria trafelata. Avevano fatto le scale così in fretta che quasi si bloccò loro la digestione. Henri aveva ancora il tovagliolo infilato nel bavero della camicia: sulla stoffa le prime tappe tracciate con la penna. Quasi 400 chilometri l’una. A guardarle bene poteva già apparire allora, seppure in forma embrionale, quel curioso disegno a ricciolo che assume il percorso, una volta segnato sulla cartina geografica: quello da cui deriva il nome Grande Boucle.
La partenza verrà poi fissata per giovedì 1 luglio 1903. Ed è proprio da quel giorno che ha inizio l’epopea del Tour. Una corsa che fin da subito ha rappresentato qualcosa di speciale, non solo per i francesi, ma per tutti i ciclisti di ogni paese, e soprattutto per gli italiani. Vincere la Grande Boucle, o anche solamente una tappa, ha infatti sempre avuto per noi un sapore tutto particolare, ben più affascinante che conquistare il Giro d’Italia. Proprio perché la partita si volge su un altro campo di gioco: una terra straniera, difficile, rivale, talvolta persino ostile, dove si parla una lingua diversa, dove le salite sono diverse, dove si mangiano cose diverse e persino i bagni degli alberghi sono diversi. Trionfare al Tour de France è un avvenimento che ti fa entrare nel mito del ciclismo, il simbolo che ti consacra come campione di questo sport. Ma la grandezza del Tour non è riservata soltanto ai vincitori: anche partecipare assume per un ciclista italiano i contorni dell’impresa. È un’avventura da pionieri, un lungo viaggio da intraprendere con gli occhi fuori dalle orbite e il cuore in gola. Un po’ come capitava, a inizio Novecento, ai migranti partiti dal nostro paese verso le Americhe a cercare fortuna, portandosi con sé la sola valigia di cartone chiusa con lo spago e il berretto calato in testa (…)
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Immagini: Michael Valenti