Les Italiens al Tour – 7 Sciapuscì

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Parlare con le montagne
Un Tour de France che ha perso il nostro protagonista più amato. Vincenzo Nibali. O “Vincenzo nostro” come aveva preso a chiamarlo, quasi fosse un patrimonio nazionale, Gianni Mura, dalle pagine del suo ennesimo taccuino di viaggio oltralpe.
Ma è questo un Tour carico di polemiche come una betoniera. Schiaffi, cinghie di macchine fotografiche, persino pugni e squalifiche per bullismo.
Forse lo è sempre stato: celebre la caduta di Bartali, vittima di un tamponamento e di tifosi che gli strapparono la bici da sotto il sellino. Era 1950, Fiorenzo Magni era in maglia gialla che non gli pareva quasi vero. E infatti così fu: la nostra nazionale (allora il Tour si correva per squadre nazionali) venne ritirata per protesta.
Un po’ come se tutto il team Bahrain Merida avesse seguito Vincenzo a casa.
Mi chiamo fuori dalle polemiche però, e vi lascio invece in compagnia di uno scalatore. Formidabile. Ontologicamente colombiano, anche se nato dalle parti di Varese. Attenzione: è uno un po’ pazzerello, ve lo dico subito. Ma è anche uno genuino da morire, merce rara oggi. Gianni nostro, sempre Mura, aveva preso a chiamarlo “Bull”, per via del naso, schiacciato, da pugile.
Siete in buone mani.
Settimo degli “italiani al Tour de France” iscritti a parlare:  Claudio Chiappucci, pardon “Sciapuscì”.
Primo nel cuore dei tifosi italiani, un giorno di luglio del 1992, sotto un caldo bestia, dopo quasi 200 chilometri di fuga. Quella volta gli parve che persino le montagne parlassero con lui.
Vai Claudio, il microfono è tutto tuo.

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The Gambler
(Claudio Chiappucci, Col de l’Iseran, 18 luglio 1992)

Manca adesso una sola salita, il Colle del Sestriere, poco sopra i 2000 metri di quota. Sto risalendo la Val di Susa contro vento, in perfetta solitudine. Mi avete lasciato così da un po’, a prendere l’aria in faccia, senza cambi, senza aiuto, senza nemmeno avere il piacere di scambiare due chiacchiere con qualcuno giusto per soffrire un po’ di meno. Una cosa folle e impossibile per uno piccolino come me. Pedalare, da solo, controvento. Che pazzia.
Che se il mio primo direttore mi avesse visto, gli sarebbe venuto come minimo un infarto. A me però piace così. Ad andare via da solo provo più gusto. Sono nato così, sono genio e sregolatezza, mi piace strafare, oppure non fare del tutto.
Sono più di quattro ore che sono in fuga, una cosa mai vista nel ciclismo moderno. Che Coppi, quello, è morto da tempo.
Si dice che in tv abbiano interrotto il telegiornale per dare la notizia, che la televisione svizzera abbia anticipato la diretta: ero arrivato dove ancora non avrei dovuto essere. Brucio velocemente, come una candela che arde da due lati, bisogna prendermi finché ci sono.

(…)

Ma lasciate adesso che vi racconti cosa ho provato soltanto qualche ora fa in cima al Col de l’Iseran, quando, per la prima volta, mi sono trovato solo, a parlare con la montagna. Una condizione che ogni uomo, nella vita, dovrebbe sperimentare. Dalla radio mi dicevano che ero già maglia gialla virtuale: avevo scavalcato Pascal Lino in classifica generale. i miei avversari più pericolosi, Indurain, Virenque, Leblanc, e persino Bugno, erano dispersi, storditi dal mio gioco d’azzardo.
Eppure vi confesso che io al cospetto di quel colle tanto alto, addirittura più del nostro passo dello Stelvio, anche se solo di una manciata di metri, ho provato una sensazione unica, indimenticabile. Potrei chiamarla sopraffazione, ma non so se è la parola giusta. Era come se la natura, in quel luogo così tremendamente sublime e possente, mi stesse schiacciando sotto il suo peso. Mi sentivo un astronauta prossimo alla luna. L’unico contatto con il pianeta Terra rimaneva l’ammiraglia della Carrera. Di tanto in tanto mi dava ragguagli, aggiornamenti, financo consigli. Aggiornamenti che però davano soltanto l’ebbrezza: solo, in cima alla classifica, di nuovo maglia gialla, di nuovo a un passo dal titolo come due anni fa?
Ecco, quelle notizie, quel vociare confuso del mio direttore sportivo dal finestrino dell’auto a più di 2000 metri di quota, mi inquietavano. Potevo uscirne stordito. Sull’Iseran, del resto, è facile.

(…)

 

In cima all’Iseran, tra pietre che parevano scogli marini e chiazze di neve che sembravano uscite dalla fantasia di un romanziere, io mi facevo piccolo e scattavo ancora. Entravo in una sorta di trance, una forma di solipsismo che mi diventa persino difficile descrivere. Il rumore dei nemici, a 2700 metri di quota, non lo senti. L’unico suono, in quella radura siderale, è il fischio del vento. Si fa compagno fedele, alleato potente: mi sospingeva da dietro le spalle, il fiato, come d’inverno, aveva preso a uscirmi dalla bocca sotto forma di vapore. Sbuffi a intermittenza, la prima nuvola non fa in tempo a evaporare che la seconda l’ha già raggiunta. Agguantavo di tanto in tanto la borraccia, ne bevevo solo un sorso e poi rilanciavo ancora. Davide Boifava, il mio direttore sportivo, continuava a ripetermelo: giù a valle creperai di caldo, idratati ora.
I contorni della mia impresa, che mano a mano cominciavano a delinearsi all’orizzonte, mi mettevano a disagio. Con la gloria cresceva anche la responsabilità. Più distanziavo i miei avversari, più avrei dovuto continuare a farlo. Se mi fossi fermato a quel punto, dopo l’Iseran, avessi rallentato il passo, anche solo per contemplare la montagna e i suoi ghiacci azzurrini, il sogno sarebbe presto svanito. Più andavo in alto, più dovevo crederci. La fatica da dimenticare. (…)

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