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Les Italiens al Tour: 8 – Pantanì
Storia di nove minuti.
Il 27 luglio del 1998, grazie a una sola tappa, epica, Marco Pantani vinceva il Tour de France.
33 anni dopo Felice Gimondi, l’ultimo italiano a esserci riuscito. Soltanto qualche settimana prima, Marco aveva vinto anche il Giro d’Italia. Una doppietta, Giro – Tour, riuscita, tra gli italiani, al solo Fausto Coppi, e, soprattutto, in un’altra era.
Quella di Pantani è stata un’impresa leggendaria, di cui ancora oggi forse ci sfuggono bene i contorni.
Il Pirata rifilava la bellezza di 9 minuti a Jan Ulrich, il tedesco rossiccio in maglia gialla fino a quel giorno, preda di una cotta clamorosa. La sua impresa, Pantani, la costruì tutta sul Col du Galibier (2.645 metri di altezza, la cima più alta del Tour de France, e, cosa non secondaria, la mia salita preferita in assoluto, l’ho fatta: Marmotte 2012, sotto vedete una foto, scattata il giorno dopo, dal gemello più basso Lautaret).
Nella successiva discesa, Pantani aumenterà ancora il vantaggio, ribaltando una classifica che pareva ormai disegnata. Mentre sulle rampe finali che portano alla stazione sciistica di Les Deux Alpes, l’ultima salita, Pantani scaverà l’abisso definitivo tra sé e Ulrich.
Oggi, 27 luglio 2018, a vent’anni esatti da quel giorno, scelgo di rendere omaggio a Marco, che fu il mio eroe, dando a lui direttamente la parola (ovviamente secondo la mia libera interpretazione). Dalle pagine del mio ultimo libro “Gli italiani al Tour de France”, ecco a voi lo scalatore più forte di tutti i tempi, nella sua impresa più bella di tutti i tempi.
Marco Pantani, Col du Galibier, 27 luglio 1998
Vado su di nervi, lo sai. Scatti potenti e improvvisi, quasi sorprendenti: i telecronisti non se li aspettano, fanno fatica a tenere il mio passo. In salita ho bisogno di togliere ogni orpello, lascio cadere a terra l’orecchino, mi sfilo la bandana che ho in testa, sputo e m’aggroviglio.
Niente regolarità, sia chiaro. Puro istinto, e via andare.
L’agilità la lascio volentieri ai passisti, ai “noiosoni” in pantofole che attendono il tè caldo dai loro gregari. Quelli se ne stanno chiusi nella pancia del gruppo quasi fosse la loro tana, salvo poi saltare fuori sul più bello, quando la fatica non si sa già più cos’è. Pavidi e antiquati.
Per fare il vuoto ci voglio io. (…)
Ho solo quella per vincere io. La salita, quella maledetta baldracca così scoscesa. Di altre strade non me ne rimangono. Devo arrangiarmi allora quando sto inclinato, e farlo come posso. Spesso non ho a disposizione che pochi chilometri, due o tre tornanti e poco più. A cronometro sono una schiappa, nelle prove contro il tempo mi “suonano” come un pugile. E in pianura? Anche lì fanno polpette di me, se non me ne sto in gruppo finisce che volo via col vento.
E in discesa? Ecco, lì, quasi quanto in salita, non sono malaccio. Devo ammetterlo, mi difendo da par mio. Vado sicuro giù per i dirupi, talvolta persino in modo strano e antiestetico.(..)
Ma quella mattina pioveva. Appena aperti gli occhi, nella mia camera a Grenoble, ho visto che le strade erano viscide come saponette. Il cielo era chiuso nei suoi pensieri e gli ombrelli aperti. In fretta, ho deciso che me ne sarei fregato. Che il mio cuore avrebbe sopportato anche quella ennesima disavventura meteorologica. Allora ho gettato a terra le coperte e sono sceso dal letto. Meglio che piovesse, mi sono detto: ché avrei appiccato il fuoco. (…)
Mentre mi arrampicavo sui tornanti, potevo vedere i drappelli dei tifosi chiusi nei loro k-way colorati o nelle loro cerate: mi sembravano fiori visti da lontano, macchioline dalle infinite cromie, dapprima pallide e poi, via via, sempre più vivide, pronti a da accogliermi festanti. Ne distinguevo le sembianze soltanto quando ce li avevo a un palmo di naso. Pioveva troppo forte, gli occhiali mi si appannavano, me li toglievo e li rimettevo, in una perenne indecisione tormentata. (…)
Dopo essere scattato, mi sono voltato a controllare una sola volta, ho visto che nessuno mi seguiva. Io solo sui pedali, loro in gruppo seduti in poltrona.
Il rubizzo tedesco sempre più in difficoltà, le guance gli si facevano, se possibile, ancora più paonazze, i suoi copertoncini alzavano schizzi di fango che finivano sulla sua schiena, lordandogli la maglia gialla così bella. Già si capiva che stava per perderla.
In cima al Galibier, Jan era arrivato stremato, nessuno, giura, lo aveva mai visto così conciato: due minuti e cinquanta il suo ritardo.
Da parte mia, nel frattempo io ero già un missile in discesa. Una lunga e tortuosa lingua nera d’asfalto fradicio che s’insinua senza protezioni tra scarpate e dirupi. Scendere dal Galibier è un po’ come scendere all’inferno. Ci vuole pelo sullo stomaco, sangue freddo, occhi vigili: la scarpata chiama, tu non devi rispondere. (…)
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