Sölden Fairy Tail – Episode 3.

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Questa è la storia della montagna più pazza che abbia mai scalato.
Sono andato al cinema settimana scorsa, con i miei due figli abbiamo visto “Everest”. Si chiamava così, ma per me il titolo era “Timmelsjoch”. E l’ho guardato tutto sotto questa lente. Mi ha parlato di quella montagna, del suo fascino bello e impossibile e del bisogno, irrinunciabile quanto inspiegabile ai più, di scalarla.
Provate a spiegare alle vostre moglie, ai vostri figli, agli amici più cari perché dovete scalare il Timmesljoch. Per quanto vi sforzerete, non capiranno mai. Bandiera bianca.
Certo, certo, l’Everest è l’Everest con i suoi quasi 9 mila metri, il TImmelsjoch (Passo Rombo) è il Timmelsjoch, un modesto valico alpino per di più poco battuto e noto al ciclismo. Eppure sono la stessa cosa. Fidatevi.
Ognuno di noi ha una montagna segreta dentro di se da scalare. La mia, promessa in sposa da tempo e mai portata all’altare, era quella. E oggi, domenica 30 agosto 2015, è venuto il giorno. L’ultima occasione.
Me l’ero giurata: se non la faccio oggi, mai più Oetztaler.
Con i suoi 29 chilometri e 2000 metri di dislivello, il Rombo caro mi attendeva da tempo. Non potevo tradirlo anche questa volta. Come il professore che sull’Everest ci deve andare per forza, dopo aver dovuto rinunciare la volta precedente. Ha una missione da compiere: portare in cima la bandierina che i suoi studenti gli hanno regalato. Glielo deve.
Così io lo devo a me stesso, ma fa poca differenza.
Quando arrivo a San Leonardo in Passiria, quattro case e dieci mucche, lo guardo. Da lì non si capisce dove si salirà per questo passaggio segreto, tanto amato dai briganti nell’800 che dall’Italia andavano in Austria e viceversa.
Lo raggiungo che ho già nelle gambe la bellezza sfiancante di 180 chilometri e 3500 metri di dislivello. Una normale – odio, mica tanto normale – granfondo sarebbe finita qui.
Ho fatto il Brennero annoiandomi, e aspettando che finisse il prima possibile. Mi avevano detto di trovare un gruppetto con la velocità giusta e di infilarmici dentro, buono buono. Così ho fatto. Poi, dopo la picchiata in discesa, in territorio italiano, a Vipiteno, tra auto dei carabinieri e insegne inneggianti al celebre yogurt, ho attaccato il Giovo.
Passo ostico. Regolare, ma lungo 16 chilometri. Ho dosato bene le energie, e, nella tecnica discesa successiva, ho cercato raccoglimento e meditazione nell’attesa della grande avventura. Come gli alpinisti del film che prima di affrontare la scalata pregano e vengono benedetti.
Mi aspetta il mio Everest. La mia personale montagna incantata. Ripeto: ciascuno ha la sua. Guardate dentro voi stessi e troverete la vostra.
Fa caldo, la giornata è a dir poco strepitosa. Perfetta. L’idea platonica della giornata estiva in montagna. Zero nuvole, visibilità massima: la corona delle montagne di confine a perdita d’occhio. Uno spettacolo. Ne sono certo, una giornata così non tornerà mai più. Ho fatto tante salite note – Stelvio, Gavia, Galibier, Alpe d’Huez, Giau, Fedaia – ma non ho mai visto in montagna una giornata come questa.
Il Rombo parte piano, ma poi si fa cattivo. A Moso, piccolo paesino che avevo visto salendo in auto il giorno prima, si tocca tranquillamente il 14%. Qui lo sconforto prende i più: l’idea di avere davanti un’altra ventina di chilometri e per giunta i più spietati, deprime anche il più incorreggibile degli ottimisti. Molti si fermano, alcuni stramazzano proprio. Io proseguo. Non ti curar di loro ma guarda e passa, mi dico. In questo girone dantesco del dislivello, cerco di radunare tutte le energie che mi sono rimaste.
A Schönau, dopo 17 chilometri, lo sguardo si apre e ti si para davanti una scalinata di tornanti da far impallidire lo Stelvio. Capisci solo allora cosa è questa montagna folle. Come essere all’ultimo campo prima della “Quota della morte” sull’Everest. Ti spaventi. Vedi quei tornanti e quei costoni di roccia e subito abbassi lo sguardo. Eppure, come per magia, sono anche il ricordo più bello che ho. Piano piano li faccio, e i dati garmin mi diranno che il Timmesljoch sarà la salita che avrò fatto meglio in assoluto: due ore e ventisette minuti di ascesa. Senza bombole d’ossigeno ma con tanta voglia. Me la volevo prendere. E quando entro nell’ultimo tunnel, capisco che è fatta. Stavolta davvero. Quasi non ci credo, non realizzo, le emozioni mi si strozzano in gola. Cerco di ricacciarle fuori, vorrei piangere di gioia, ma loro subito, leste e maledette, tornano giù. La gioia è anche confusione, incapacità di godersela subito fino in fondo. Ci vorrà tempo, ed è giusto che sia così.
La discesa da questa pazza montagna me la godo come poche cose nella vita. Le ultime lame di sole, sono già quasi le cinque del pomeriggio, sulle gambe. I boschi e le prime case di Obergurgl, il paese dal nome impronunciabile, i bimbi con i campanacci e la gente del posto che mi applaude. L’ultimo paravalanghe e poi l’ingresso, trionfale in Sölden. L’ultima curva, il ponticello sul fiume impetuoso, e l’arco di trionfo della Red Bull. Mamma, ho fatto l’Ötztaler. Sono salito sull’Everest e sono sceso. Sano e carico di qualcosa di nuovo che ancora però non riesco a decifrare. Qualcosa di speciale da portarsi a casa e tirare fuori a piccole dosi durante i mesi invernali che m’aspettano. Mi raccomando, con molta attenzione, le emozioni, quelle più belle, sono materiale fragile. Basta niente che evaporano. Come l’aria rarefatta dell’Everest Timmelsjoch.

(photo credits: Sportgraph)