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Sölden Fairy Tail – Episode 2
Quando ero piccolo – si fa per dire, 35 anni – e ho iniziato a pedalare, i grandi mi parlavano sempre di questa benedetta Ötztaler. Cosa diavolo fosse non lo capivo proprio. Solo il nome mi metteva paura. E quando guardavo il chilometraggio e il dislivello, mi domandavo se per caso non fosse una gara a tappe e più giorni.
Oggi, rovistando negli armadi di casa (ogni tanto mia moglie mi ingiunge di fare ordine) mi è capitata tra le mani una copia di un vecchio giornale: “Cicloturismo”, agosto 2007. In copertina facciotti stravolti e coperte termiche tipo quelle che danno ai profughi quando sbarcano a Lampedusa. Qualcuno con lo sguardo perso nel vuoto, qualcuno persino in lacrime stretto nell’abbraccio dei famigliari. Qualcuno in preda ai crampi, abbarbicato contro le transenne. Sembra in tutto e per tutto il lieto fine di una tragedia. Non una gara ciclistica.
I dubbi che avevo allora non potevano che aumentare: cosa diavolo è questa Ötztaler Radmarathon?
Ora, otto anni dopo, posso dire che quella era diventata a tutti gli effetti la mia ossessione. La gara che non riuscivo mai a fare, la mia personale Moby Dick, la chimera irraggiungibile di una vita che al solito nominarla mi faceva l’effetto di una pallottola al cuore. In quanti mi hanno scritto in questi anni: “ma l’Ötztaler riuscirai mai a farla? Non conviene piantarla lì?”
No, non conveniva.
Ora riguardando quella vecchia copertina di Cicloturismo di otto anni fa, sorrido beffardo. È come se davanti avessi tutta la mia vita ciclista sintetizzata in una sola immagine. È come quando riscopri una vecchia foto di te il primo giorno di scuola alle elementari: chi l’avrebbe mai detto che un giorno avresti fatto l’avvocato, l’ngegnere, o l’architetto?
Nella seconda pagina di quella stessa rivista, c’è una bellissima foto di un rifugio proprio sopra la cima di una montagna, di fronte, sulla destra, un ristoro rifornitissimo di viveri e vettovaglie d’ogni sorta. Ancora una volta loro: i profughi.
I picchi delle montagne attorno sono tutti cosparsi di una leggera imburrata di neve. I ciclisti ritratti nell’atto di indossare manicotti e mantelline, mentre si infilano in bocca banane e fette di torta.
I miei dubbi di neofita non facevano che aumentare.
Quel passo, oggi lo so, è il Kuhtai.
Un bellissimo valico del Tirolo austriaco posto appena sopra i duemila metri di quota. Un luogo incantato, di quelli che poi andranno a fare compagnia nella tua mente a i vari Galibier, Gavia, Manghen e Pordoi. Posti belli dentro, luoghi dell’anima. In cui tornare, appena si può.
Raggiungiamo il Kuhtai dopo 50 chilometri di gara, fatti a tutta. La mia velocità media è di 28 all’ora. Dopo una salita di 20 km. Mai fatto.
L’ascesa al Kuhtai è abbastanza irregolare, coglie non pochi di sorpresa. Si passa da tratti durissimi – anche al 18%, la pendenza massima di tutta la gara – a parti di falsopiano da affrontare addirittura con il 50. È così, tutto è un su e giù di moltipliche e pignoni. Un clangore che assorda la valle ancora addormentata. Una salita che procede a gradoni, di quelle che possono far male, perché è difficile, quasi impossibile, trovare un ritmo. A un tratto, in una delle parti in falsopiano, un tedesco mi tocca la ruota posteriore, per un attimo penso a una foratura -dannazione, essì che avevo montato i copertoni da 25! -.
Poi mi affianca, mi chiede scusa e inizia a sganasciarsi come solo i tedeschi sanno fare: mi aveva scambiato per un amico e voleva fargli uno scherzo. Valli a capire questi bestioni mangiachilometri. A due chilometri dallo scollInamento, va in onda la scena più bella di tutte, quella che credo sintetizzi al meglio utta la bellezza – almeno per me – di questo passo. La carreggiata è completamente invasa da un gregge infinito di mucche che costringe tutti a mettere il piede a terra. Una transumanza di bestie enormi, di colori diversi e bellissimi, alcune pezzate, altre marroni, qualcuna bianca. Muggiscono al massimo dei decibel. È fin troppo chiaro che qui siamo noi di troppo. La nostra presenza le costringe a una deviazione che avrebbero evitato volentieri. Il vero gregge, il vero imprevisto, siamo noi. Non loro. Noi, la transumanza rumorosa di ciclisti,. Questa è la loro montagna. Il Kuhtai è casa loro, da millenni. Che ci facciamo noi qui oggi? I muggisti sono inequivocabili: sembrano urla bellicose. Sono incazzate nere. E sono meravigliose, l’idea platonica della mucca si materializza qui, sul Kuhtai.
Quando si apre un pertugio tra un culo e un paio di corna, mi infilo e proseguo.
Il primo passo è andato. Arrivo, sgancio il pedale e mi guardo attorno. È proprio come quello visto in foto su Cicloturismo. Mi fermo al ristoro, mangio una banana e due fette di strudel, indosso la mantellina e riparto.
La discesa è lunga, oltre 20 chilometri di picchiata. Nel primo rettilineo, supero addirittura gli 80 all’ora. I paravalanghe attraverso cui mi incuneo sono un’immagine a tripla velocità nelle mie pupille dilatate. Occhio alle canaline di scolo dell’acqua – me l’avevano detto – tiro dritto, scendo attraversando un buffo paese, quattro case e un campanile bombato e aguzzo allo stesso tempo. Dopo una serie infinita di curve e controcurve, riagguantiamo la pianura.
Ora, dopo una decina di chilometri, a Innsbruck, ci aspetta il Brennero. La seconda fatica. Nelle orecchie, le mucche del Kuhtai muggiscono ancora.
(photo credits: Sportgraph)