d’Huez.

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Dove eravamo rimasti? 

Ah sì che non scrivevo da un po’. Chiedo venia ma l’assenza era giustificata: fervono i preparativi, le messe a punto, gli ultimi ritocchi, una consonante qua, due vocali là. Insomma ci siamo. 
“Ma chi te lo fa fare”, collana Wild di Fabbri Editori – Rizzoli RCS, sarà nelle librerie dal 2 aprile. 
Niente pesce, solo carne: è tutto vero, gli scaffali già fremono nell’attesa.
Ieri son stato in Feltrinelli e ho chiesto di me, facendo finta di non conoscermi: “mi scusi, sa mica per caso di quel libro sulla bicicletta, quello di quell’autore… come si chiama, mannaggia ce l’avevo sulla punta della lingua…”
Udite udire: il volume appare già tra i prossimi arrivi.
E io già me la faccio sotto: piacerà? Non piacerà? A qualcuno gliene fregherà qualcosa dei sogni e delle avventure di un ciclistapericoloso? 
Mentre sfogliavo le bozze, in questi giorni, ho riletto alcuni pezzi e mi sono emozionato. Non tanto per come sono scritti, quello lo giudicherete voi, quanto perché raccontano di momenti  indimenticabili per me ciclisticamente parlando.  
Ogni cicloamatore che si rispetti ha una sua “Bildung” a pedali: fatta non tanto di letture o romanzi di formazione, ma di salite, passaggi obbligati, riti iniziazione a luoghi sacri del ciclismo.
Se non hai fatto la Valcava, ad esempio, non sei uno scalatore brianzolo.
Se non sei andato sul Gavia, non sai cosa vuol dire cominciare a ragionare sopra i duemila metri. 

Se non sei mai andato sulle Dolomiti, non sei mai stato nella terra con non conosceva le pianure.
Bene. Tra tutti questi luoghi sacri, templi consacrati al Dio pedale, ce n’è stato uno che mi ha colpito più di altri: non tanto per la sua difficoltà (trattasi di salita non certo impossibile, per quanto contenga diversi tratti sopra il 10%), ma per l’effetto che mi fece quando la vidi per la prima volta. Dopo averla ammirata tante volte in tv, nelle immagini del Tour de France, eccola che mi si è parata davanti un afoso mattino di luglio.
All’improvviso mi sono fatto piccolo piccolo, come un calciatore che calca per la prima volta l’erba sacra del Santiago Bernabeu o un velista che doppia Capo Horn.
Signore e signori, ecco a voi l’Alpe d’Huez. 

L’Alpe d’Huez. L’ultima fatica.
Con Luca e Daniele l’ho perlustrata tutta ieri, il giorno prima della gara. In auto, arrivando da Milano, non potevamo che fare questa strada: avevamo prenotato una camera tripla in un residence lassù in cima. Un residence, devo dire, piuttosto spartano: ci hanno messo in mano coperte e lenzuola come fossimo in caserma e i letti abbiamo dovuto farceli da soli. Del resto, tutto a questa Marmotte è un’esperienza un po’ militaresca.

Mentre salivamo in auto, l’Alpe ci ha fatto un’impressione pazzesca: già dalla prima rampa e dal primo tornante, il cuore ci è balzato in gola. La cattiveria infinita degli organizzatori per averla posta a fine gara ci è sembrata spietata. Arrivare qui, quando hai già qualcosa come 160 km e 4 mila metri di dislivello nelle gambe, non è un gioco. È una forma di sadismo bella e buona.

Mentre il nostro minivan, con le bici stipate, due nel bagagliaio e una sul tetto, caracollava, scalando le marce per la pendenza severa, ci siamo chiesti in che condizioni l’avremmo affrontata in gara. Ci siamo risposti da soli, con un silenzio assordante. Nell’abitacolo nessuno fiatava, solo il motore bofonchiava qualcosa e neppure in modo troppo chiaro. Eppure, via via che salivamo, la storia del ciclismo si è impossessata dei nostri occhi. Lungo la salita che porta all’Alpe d’Huez, nei pressi di ognuno dei sui ventuno stramaledetti tornanti, è posto un cartello su cui c’è scritto ogni volta un nome diverso: quello dei ciclisti che su questa salita hanno vinto almeno una volta. È come fosse una hall of fame del dislivello. Da Coppi ad Armstrong, passando per Pantani, Ivan Mayo, Gianni Bugno, Hinault e Frank Shleck, ognuno di loro è arrivato primo in una tappa del Tour de France. E a ognuno di loro è dedicato un tornante di questo tempio sacro.

L’asfalto è una sorta di enorme tela di striscioni permanenti scritti dai tifosi, cuciti tra loro dalla storia. Qui nessuno li cancella: sono un patrimonio da conservare e lasciare alle generazioni future quasi fossero lunghissimi geroglifici o incisioni rupestri.

Mano mano che salivamo, il paesaggio andava cambiando. Ogni curva lasciava intravedere un pezzetto in più del villaggio che ci aspettava in cima: una stazione sciistica ultra moderna, una sorta di Las Vegas dei ghiacci. L’Alpe d’Huez offre uno spettacolo inquietante. Se non ci vieni in inverno per sciare, l’unico altro motivo che potrebbe spingerti a salire quassù è il Tour de France. O la Marmotte, se non hai proprio tutte le rotelle a posto. (to be continued)

(foto: Gruber Images)