Favole al telefono.

Pantani1
Sono passati 10 anni.
E parlare di Pantani è già diventato un inutile esercizio retorico.

Pantani è stato un mito, una rock star, un omino piccolo che ha fatto ingigantire nove milioni di Italiani.
Parlare di Pantani è come parlare di Coppi. Tanto vale non farlo.
E allora perché lo faccio? Non lo so,
 e il bello è che non l’ho fatto mica solo qui. No, ne ho scritto per pagine e pagine: un intero capitolo del mio libro (sotto ne trovate una breve anticipazione).
Pantani ha vissuto soltanto trentaquattro anni. Trentaquattro. Un lampo, una saetta a ciel sereno.
E la sua grandezza estrema l’ha regalata, se possibile, ancora più in fretta. Come una candela che brucia da due lati contemporaneamente, in soli tre mesi: da maggio a luglio del 1998.
In quei tre mesi si compì un’impresa di quelle che restano nella storia.
Come i gol di Paolo Rossi e gli slalom spietati di Alberto Tomba.
Perché in fondo, dopo tutto, Pantani era uno cocciuto. Altro che fragile.
Come faccio io a saperlo?
Semplice: ho fatto una telefonata. 

PS: per districarsi nel marasma di celebrazioni di questi giorni, a chi fosse interessato, segnalo la proiezione in 100 sale italiane (a Milano è al cinema Odeon), per i soli 17,18,19 febbraio, del film “Morte accidentale di un ciclista” di James Erskin. Il titolo originale (da noi inspiegabilmente cambiato in un generico “Pantani”) è bellissimo, una dotta citazione. Direi che anche il trailer promette bene. Io andrò sicuramente a vederlo.
Ad ogni modo, trovate tutte le info (su sale orari e giorni) qui.

(…) Dall’altra parte del telefono c’è Pino Roncucci.
Pino Roncucci è stato il primo direttore sportivo di Marco Pantani quando correva ancora come dilettante.

Pino comincia a raccontarmi Pantani come fosse suo figlio.

(…) Marco era un cocciuto, uno che sapeva fin dall’inizio il fatto suo: in tanti ci avevano perso la pazienza con quel ragazzo, molti avevano rinunciato. “Ma se vuol provarci lei, Roncucci…”

Sì. Vuol provarci lui. Pino Roncucci da Forlì. Ne è certo.

Anche perché quel ragazzo di Cesenatico, gli dicono, farebbe carte false per venire proprio nella sua squadra, la Giacobazzi. “Già, ma perché proprio nella mia squadra? Perché proprio alla Giacobazzi?” si domanda Pino: non capisce, non gli torna, ma ne è ormai incuriosito. Poche volte ha visto una determinazione così caparbia in un giovane dilettante. “E se poi non ascolta neanche me? Mah, cominciamo intanto a vederlo: gli organizzo un bel test. Di quelli come dico io. E poi vediamo…”

Così lo invita a Forlì, nel suo territorio, in un centro specializzato.

Lì gli misurano pressione, massa magra, massa grassa, lo sottopongono alle prove da sforzo, poi allo spirometro, infine gli preleveranno sangue e urine e chissà cos’altro. Lo passano al setaccio, da capo a piedi. E lui, Marco, tace e lascia fare.

Pino monitora tutto minuziosamente di persona, con attenzione maniacale: vuole vederlo ai raggi x questo Pantani così spavaldo che vuole spaccare il mondo di testa sua.

La Giacobazzi è uno dei team più forti in Italia nell’ambito dei dilettanti, una squadra che vince sul serio. Per scelta, da anni prendono solo atleti di prima fascia. Questo Pantani sarà all’altezza?

Il test non dà risultati incoraggianti. No.

Dà responsi che hanno dell’incredibile: impressionanti, inequivocabili, paurosi. Pantani ha trentaquattro o trentacinque battiti a riposo! Un bradicardico, con la pressione sanguigna di un serpente. Capace quindi di sopportare sforzi e carichi di lavoro intensissimi, che risulterebbero proibitivi per altri atleti. Mentre Pino me lo dice al telefono, io mi sono messo sotto una grondaia: ha ripreso a piovere forte, ma non voglio riaprire l’ombrello. Se peso e altezza sono gli stessi, mi dico, i battiti invece direi di no. I miei, a riposo, sono distanti mille miglia da quelli di Pantani. Io, a riposo, ho degli umani e onestissimi cinquantacinque battiti. Venti di più di quella macchina perfetta.

Roncucci va avanti ad analizzare i risultati del test: il cuore di Marco, il “motore” come lo chiama lui, dopo le prove sotto sforzo alla cyclette, nel giro di una manciata di minuti torna come prima: trentaquattro, trentacinque battiti. Da non crederci. Pino, infatti, non ci vuole credere. O, meglio, ci vuole credere eccome, ne ha bisogno come del pane di un atleta del genere nella sua scuderia. Ma una capacità di recupero così rapida non l’ha mai vista in nessun ciclista prima d’ora. Non solo tra i dilettanti, ma nemmeno tra i professionisti: le pulsazioni di Marco, mi dice al telefono, anche dopo un tappone dolomitico con più di tremila metri di dislivello, nel giro di mezz’ora tornavano quelle a riposto. Se sei così, insiste, vuol dire che madre natura ti ha dotato di un motore unico al mondo. Il motore di un Albatros. (TO BE CONTINUED)

(Foto: rouleur.cc)

Tutti i materiali, le riflessioni e le anticipazioni sul  libro “MA CHI TE LO FA FARE” in uscita per la collana Wild di Fabbri Editori, li trovate raccolti in CICLOFFICINA.