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Quindici
Le Rose e i Coltelli.
Il 14 febbraio del 2004, esattamente 15 anni fa, in un mini-appartamento del residence “Le Rose” di Rimini, moriva Marco Pantani. Overdose di cocaina, anche se la sua fine, dai contorni non chiari, non ha mai smesso di suscitare dubbi e polemiche.
Personalmente non ho mai creduto alle teorie troppo “complottiste”, non lo faccio quasi mai, per natura. Sarò ingenuo, chissà.
Fu una fine tragica, comunque la si voglia vedere. Scioccante e traumatica. Personalmente ne soffro ancora oggi (la ferita non si rimargina facilmente). Non volevo crederci alla morte di Marco Pantani, volevo fare finta che non fosse mai successo. Mi faceva sentire meglio.
Ho amato Pantani di un amore viscerale, c’era evidentemente anche dell’altro, forse un pericoloso processo di identificazione personale, vallo sa sapere, roba da Freud.
Quello che ha vinto e soprattutto come lo ha vinto, Pantani, oggi mi bastano e avanzano.
Perché lo ha fatto nel modo per me più bello: tutto in un colpo solo, senza il tempo di pensarci e forse di fiatare. Un po’ come l’inter di Mourinho.
Quella di Pantani resta, per me, una delle emozioni sportive più intense mai provate. Nella mia vita ne ricordo distintamente 3: l’Italia campione del mondo in Spagna nell’82, Alberto Tomba alle Olimpiadi di Calgary, Marco Pantani in maglia gialla al Tour de France.
Oggi mi piace ricordarlo così. Con un breve estratto dal mio ultimo libro “Gli italiani al Tour de France” . Che quello, soprattutto, era Marco per me. Un italiano all’estero. Un migrante della fatica.
Questa la sua ultima tappa vinta. L’ultima “gioia”, che in realtà era rabbia. Courchevel, luglio 2000.
Enjoy
Vieni via con me.
“Courchevel è una stazione sciistica estremamente nota, per quanto sorta relativamente di recente. Siamo nella Savoia, sud est della Francia, quasi al confine con il nostro paese. Si dice che la sua fama arrivi persino prima di quella di Sankt Moritz o Aspen in Colorado, due autentici santuari per gli appassionati di sci.
Esattamente in quel punto, il 16 luglio del 2000, tra due ali di folla, il “Pirata” vinceva, in perfetta solitudine, la sua ultima tappa al Tour de France. Sarebbe stata anche l’ultima tappa della sua vita.
(…)
Quel mattino mi ero alzato fresco come una rosa. Fin dal sorgere del sole, era tutto un altro Pantani, che quasi non mi riconoscevo nemmeno io. Alle sette ero già in piedi, arzillo come un grillo. (…)
Improvvisamente si sono ricordati di Pantani. Armstrong è dietro, con la sua radiolina del cavolo e gli auricolari perennemente ficcati nelle orecchie, con i suoi fottutissimi calcoli matematici, con le sue stramaledette tabelle; con i suoi numeri ossessivi che gli frullano in testa, mentre il cuore l’ha dimenticato in cantina.
Ora non mancano che 6 chilometri al traguardo. I miei avversari li ho staccati tutti, ho davanti solo i fuggitivi di giornata, gente che in classifica non fa che il solletico. In un amen riprendo Santiago Botero, maglia a pois, e poi il mio connazionale, il varesino Daniele Nardello che oggi sta facendo una splendida gara. Quest’ultimo lo guardo con la coda dell’occhio, vorrei fargli i complimenti da italiano a italiano per come sta correndo, ma non ce n’è tempo, ogni secondo è prezioso, una stilla di vita in più. Sulla fronte, lungo le tempie, finendomi in bocca, mi colano ancora, e copiose, le stramaledette gocce di sudore. Mi tormentano, mi bagnano, rendono madido il mio cranio lucente.
Ho sete adesso, dò una sorsata alla borraccia che oggi ancora mi pare di non averlo fatto, prendo una spugna fradicia che mi porge un tifoso a bordo strada e me la schiaccio contro la tempia. L’acqua di cui è imbevuta mi pare freschissima, la più buona di sempre. Gronda giù sulla guancia, tracima lungo il collo, s’infila persino, benefica, nella mia maglia rosa, le mie membra stanche ne godono come un deserto della prima pioggia dopo decenni. Devo attaccare ancora però: è vero che dietro non mi hanno seguito, ma è meglio non concedere che un istante. Armstrong, mi dicono, è rimasto piantato sui pedali, che gioia. Mentre mi alzo fuori sella, sono tutti attoniti, mi guardano come venissi da un altro pianeta. Lo stesso dove ero due anni fa, il Galibier. Sono tornato, maledetti, cosa credevate?”
(Da “Gli italiani al Tour de France” – Utet 2018, acquistabile online)
Foto: ©ciclistapericoloso, tutti i diritti riservati