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Les Italiens al Tour: 3 – Bartalì
Gino Bartali. O dell’arte del lamento.
Urlava, Dio santo, se urlava. Come un ossesso. Da mettergli, quasi la camicia di forza. Altre volte stava invece zitto, fermo, marmoreo, sull’attenti. I muscoli tutti impettiti come a una cerimonia ufficiale. Magari offesi da qualche caduta. Una cosa era certa: a Gino non bisognava fargli girare le scatole, soprattutto mentre pedalava. Pena improperi e magari anche qualche cazzotto, che non andava giù tanto per il sottile il ragazzo.
Prosegue la serie di “voci narranti” dal mio ultimo libro “Gli italiani al Tour de France” (Utet), appena uscito.
Oggi è il turno di Gino Bartali da Ponte a Ema, due casette attaccate a Firenze, eppure già così lontane. Fumava, parlava, si lamentava. Un artista nel farlo. Come si lamentava Gino non ci è mai più riuscito nessun ciclista forse. Eppure proprio dal fondo di quei suoi guai, veri o immaginari che fossero, riemergeva come un mostro a sette teste. Quasi sempre più forte di prima. Come quando vinse il Tour de France per la seconda volta, dieci anni dopo aver vinto il primo. 1938 – 1948. Un’impresa, vincere il Tour una decade dopo, rara, quasi impossibile. Diecevano che era vecchio, sorpassato, “da rottamare”, per usare linguaggio dei nostri tempi. E lui allora iniziò a lamentarsi, coi giornalisti, gli amici, la moglie, i compagni di Nazionale, il suo CT Alfredo Binda. Chiunque gli capitasse a tiro era condannato: sigaretta, bicchiere e lamentele assortite. Ma quando toccò il fondo, allora Gino riemerse, si guardò attorno e capì che doveva vincere il Tour de France. Stravinse una Grande Bocule che sembrava già aver irrimediabilmente perso (aveva oltre 20 minuti di ritardo).
Quell’impresa leggendaria ho scelto di farla raccontare a lui in prima persona. In un dialogo immaginario con la montagna incantata che gliela ha regalata: il Col de l’Izoard. Una pietraia lunare, con la sua leggendaria “Casse Desert”, che Gino ritrova dieci anni dopo. Sull’Izoard, nota alberi che prima non c’erano, pietre rotolate qualche centinaia di metri più a valle, increspature della terra che non aveva visto la prima volta. Vai Gino, portaci via con te.
Lamentati pure, con noi puoi.
MEMO IMPORTANTE:
mercoledì 13 giugno, ore 19:30 presenterò “Gli italiani al Tour de France” con Luca Gregorio e Riccardo Magrini di Eurosport in quel di Upcycle Bike Café a Milano (via Ampere 59). Siateci. Mentre sabato 16, ore 18:30 sarò al Museo del Ghisallo. Gino sarà con noi. Assieme a lui: Fausto, Felice, Fiorenzo, Fabio, Gastone, Vincenzo, Marco, Gianni, Claudio. I miei eroi. Che fate, state a casa?
Alberi in più.
(Gino Bartali, Col d’Izoard, 15 luglio 1948).
Sulla pietraia vado su che è una meraviglia. Dovreste vedermi: lo so che siete lontani da qui e che adesso c’è un gran trambusto laggiù in Italia per via dell’attentato a Togliatti, di cui siete ben più preoccupati che delle mie sorti. Ma provate a sforzarvi, anche per un solo momento.
Cercate di immaginare la gioia, la rabbia e infine l’orgoglio che bruciano in corpo a questo vecchio trentaquattrenne qui, mentre spinge sui pedali, i piedi ben fermi nelle gabbiette, il mento rivolto all’insù e la faccia protesa al vento. Che il nemico a me piace guardarlo dritto negli occhi, mica di sbieco come quel Pallante, incapace persino di sparare a un uomo indifeso soltanto a pochi passi di distanza.
Mi faccio umile e piccolo nel dolore io. C’è un senso in tutto questo, lo so, lo percepisco: il ciclismo è uno sport per gente modesta, certo, il Tour una corsa dura e spietata, ma, vivaddio, sono anche cose capaci di farti grande quando meno te lo aspetti. Ripagarti di tutto l’amaro trangugiato, di tutti i silenzi quando più avevi bisogno di parole di conforto. Qui, in Francia, ogni giorno, hai l’occasione del riscatto, la possibilità della gioia inattesa e dimenticata. Battiti per ogni metro di strada e non sarai mai battuto da niente e da nessuno. Questo il mio motto. (…)
Mi riconosci, Izoard?
Il rumore leggero e malefico delle mie ruote ti dovrebbe suonare quantomeno famigliare. Ho rigato la tua superficie come una carezza tanti anni fa, dieci per l’esattezza. Ero ancora un giovane scapestrato allora. Poi mi sono fatto uomo, la strada mi ha portato altrove, lontano da te, ma io non mi sono mai dimenticato della tua superficie, ruvida come la mano di una strega. Lo senti lo scattare improvviso del tubolare posteriore, freddo e sicuro, sulla tua schiena? La senti la gomma zigrinata sguazzare nella fanghiglia? E i sassi e i rami che schizzano a più non posso verso i bordi della carreggiata, addosso ai pochi spettatori giunti quassù? E queste gambe? Queste gambe qui, nere e smunte, stanche ma ancora forti da far paura, loro almeno le riconosci?
Dietro di me, se mi volto a guardare, vedo solo il vuoto.
Un lungo e fuligginoso serpentone nero e muto, ecco cosa resta dei miei avversari: è quello delle ammiraglie che mi seguono, una decina di auto non di più, qualcuna ha già i fari accesi. I loro corridori, del resto, sono dispersi nella nebbia, tanto vale godersi lo spettacolo di questo Bartali incontenibile che risale la montagna. Dei venti minuti di ritardo che avevo, non ne restano che quattro, forse tre.
E, dopo tutto, il cielo è così scuro che pare di essere al cinematografo. Nemmeno Alfredo ha il coraggio di sporgersi dal finestrino del suo glorioso fuoristrada, per vederci più chiaro. Sta seduto comodo al caldo, si fa per dire, il commissario tecnico, lasciandosi quasi coccolare dal sedile, si gode lo show, è calmo: sa che ormai non ho più bisogno di lui. Ora sono solo.
E lo so da me come si fa a vincere un Tour de France. Come dite, qualche minuto ancora di ritardo da Bobet? Li riprendo con gli interessi entro sera, tranquilli. Giusto il tempo di pestare un po’ più sui pedali, uno scatto, una nuvola di fumo che esce dai polmoni, un tintinnare sordo del cerchione, là dietro, tra il pignone e la neve (…)
CONTINUA A LEGGERE “GLI ITALIANI AL TOUR DE FRANCE” (UTET 2018)