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Les Italiens al Tour: 2 – Magnì
America!
Prosegue la carrellata di Italiani in gita, direttamente dal mio ultimo libro “Gli italiani al Tour de France”. Viaggiatori persi nel tempo, sognatori controvento, ammaliati da un sole giallo canarino, che batte costante come un miraggio sulla prua della loro nave. Il sogno è uno solo: vincere il Tour de France, la maglia gialla, portarla fino a Parigi. Pare un supplizio di Tantalo, una fatica smodata e improba. Sono connazionali sparsi come biglie impazzite a brancolare tra i Pirenei e le Alpi, tra il Mistral e le acque impetuose e gelide de la Romanche, ai piedi dell’Alpe d’Huez, di fronte al ghiacci perenni della Meije, l’azzurra albedo che si staglia davanti al Grand Galibier (ci sono stato, vi assicuro: è come trovarsi di fronte alle sirene di Ulisse, non cedete alla tentazione di ascoltarne il canto, potreste non arrivare mai al traguardo).
La “Grande Bocule” (“il grande ricciolo”, così chiamato per via della forma che assume il percorso del Tour de France appena tracciato sulla cartina geografica) li attende tutti, i nostri compatrioti, fino all’ultimo chilometro dell'”Hexagone”. Ovverosia, la Francia: la terra promessa che non fa sconti a nessuno, ma che regala opportunità a tutti, se la si sa prendere per il verso giusto. Già, ma chi sa quale è il verso giusto? L’America dei ciclisti, la Francia. Rock n’ fuckin’ roll.
Kafka, in “America”, i migranti, se li immaginò benissimo (pur senza esserci mai stato davvero, olreoceano): erano pronti a partire e perdersi su una nave, nel mare in tempesta. A qualunque costo, pur di avere quella cosa pazza che si chiama America. I ciclisti italiani al Tour de France fanno un po’ lo stesso: spaesati, silenziosi, in un ambiente a loro poco familiare (qualcuno non è mai stato prima all’estero). E però, proprio per questo, sono anche pronti a tutto, e meravigliosamente italiani. A volte gli va bene, a volte gli va male. Come a Fiornezo Magni, che mai potè vincere il Tour de France, nonostante fosse in maglia gialla e ce lo avesse bene in pugno. Era il 1950, faceva un caldo tropicale e Fiorenzo era un giovane gregario che rischiava l’exploit imprevedibile. Si correva per squadre nazionali allora: l’Italia del capitano Bartali, la Francia, l’Olanda. Non ce la fece Fiorenzo a coronare quel sogno, fu costretto a ritirarsi, assieme a tutta la squadra, per le pressioni di Bartali. Ginettaccio sosteneva di essere stato aggredito da alcuni tifosi francesi lassù in montagna. Quella mancata vittoria divenne da allora per Fiorenzo un sogno dolce-amaro. Un pensiero leggero e pesante allo stesso tempo, capace talvolta di alleviare la delusione, talaltra di farlo immalinconire irrimediabilmente. Una cosa è certa: non ne è uscì mai. Ma ora mi taccio, che ve lo racconterà lui stesso, il Fiorenzo, in prima persona.
I Have A Dream
(Fiorenzo Magni, Saint-Gaudens, 26 luglio 1950)
Stanotte ho fatto un sogno: vincevo il Tour de France.
In perfetta solitudine e in maglia gialla arrivavo per primo a Parigi. Facevo il mio ingresso trionfale nel velodromo Parc des Princes, dove si conclude l’ultima tappa della Grande Boucle. Qui, una volta, ci venivano i re di Francia a cacciare, tra marmotte e daini, immersi nel profumo di muschio selvatico. Ero felice come un bimbo, c’era poco da fare.
La magica ellisse della pista mi attendeva all’interno del catino riflettendo un sole bello e caldo, possente e intenso come rare volte capita. Gli spalti, davanti a cui avrei compiuto di lì a breve un giro d’onore, erano gremiti in ogni ordine di posto. Tanta affluenza al Parc des Princes non si era mai vista, c’era gente persino stipata nei bagni, dicevano in attesa di un posto migliore sulle tribune: magari aggrappandosi al vicino o alzandosi sulle spalle di qualcuno più basso, sarebbero riusciti a vedermi. Era tutto un mormorare il mio nome lungo le strade del XIV arrondissement, un brulicare di «Viva Fiorenzò!» agli incroci, sui marciapiedi e lungo la Senna. Qualcuno aveva persino scritto sull’asfalto, con la vernice gialla, s’intende, il mio nome: la Parigi popolare si era fatta bella e lo aveva fatto per me. Potevo contenere quell’emozione?
Vedete, quello che trovo bello dei sogni è che ti illudono come se fossero veri, vividi e tremendamente “reali”, capaci di colpirti nel profondo e indurti a seguirli, come il pifferaio magico. Che disdetta.
(…)
Anche io, anche Fiorenzo Magni da Vaiano, l’eterno gregario, quello che doveva sempre arrivare “terzo”, ossia dietro quei due. Quello che doveva ricucire i buchi, colui che era chiamato a tappare le falle, chiudere le fughe, farsi piccolo mentre gli altri diventavano giganti: anche io, e soltanto per sopraggiunti motivi di forza maggiore, potevo provare a dire la mia. Ma senza far troppo rumore, eh? Potevo provarci, ma sottovoce. Senza dare troppo nell’occhio insomma. Per questo, credo, nel mio sogno c’era tutta quella gente lungo i boulevard e persino la banda che suonava in strada.
Sarei piombato sulla pista del velodromo in perfetta solitudine senza nemmeno prendermi la briga di voltarmi indietro per controllare. Maglia gialla e knock out, tutti al tappeto. Gli altri ciclisti avrebbero guadagnato la pista soltanto minuti e minuti dopo, quando io sarei stato ormai già in un brodo di giuggiole tra ragazze e fotografi. L’ho detto che i sogni sembrano veri. Eppure nessuno mi osannava, nessuno mi applaudiva più, nessuno mi veniva nemmeno incontro. E la cosa, per la cronaca, iniziava a puzzarmi e anche parecchio. Vedete, il fatto è che era come se non ci fossi io su quel chilometro finale, ma qualcun altro al posto mio. Un fantasma forse. Uno che lì non doveva proprio esserci. (…)
CONTINUA A LEGGERE “GLI ITALIANI AL TOUR DE FRANCE” (UTET 2018)
Foto: 25/7/1950 Tour de France 1950, 11a tappa – Pau – St Guadens.
Fiorenzo Magni cerca refrigerio per strada.
Photo: Offside / L’Equipe. – Rouleur
CI VEDIAMO MERCOLEDI’ 13 GIUGNO DA UPCYCLE (MILANO):
Per chi non potesse, ci vediamo anche sabato 16 giugno, 18:30, al Museo del Ghisallo di Magreglio (COMO).