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Addirittura!
Qualche settimana fa avevo letto su La Gazzetta dello Sport che Pantani si stava disintossicando in una clinica nel padovano. Ero rimasto stupito da quella notizia, seminascosta per altro nelle pagine interne del quotidiano: disintossicando da che? Non sapevo che Marco fosse arrivato a tal punto, tantomeno che avesse bisogno di una clinica per uscirne. Sempre nello stesso periodo, non ricordo con esattezza quando, mi era capitato di vedere anche un’altra cosa. Un’immagine che girava sul web: un SUV, un Mercedes grigio metallizzato, finito in contromano contro un gruppo di auto in sosta lungo un viale di una cittadina di provincia. Il mastodonte era letteralmente “atterrato”, con tutto il suo peso, su una Peugeot bordeaux, sfondandole tettuccio e parabrezza irrimediabilmente. In didascalia, una riga appena, si leggeva: “Alla guida del SUV il ciclista Marco Pantani, procedeva a forte velocità”. Incuriosito, o forse indispettito, da quella foto, ne avevo cercate altre: avevo trovato una inquadratura più larga della stessa situazione che, oltre al SUV e alla Peugeot accartocciata, mostrava anche il ciclista. Marco, in quello scatto rubato, appariva in forma, magrissimo e tirato, vestito con un completo grigio e con un curioso zaino verde e arancio sulle spalle. Dove stava andando? Cosa si portava dentro quel bagaglio da teenager in Inte-rail?
Erano notizie, quelle due, a loro modo estreme, ma che se lette slegate tra loro, come era capitato a me, sembravano contingenti, episodiche. Due incidenti di percorso occorsi a un personaggio pubblico in un momento di appannamento della sua carriera. Episodi incapaci cioè di fornire, di per sé, il quadro di una situazione ben più complessa e divenuta ormai – scopriremo – irreversibile.
I giorni seguenti avevo così regolarmente rimosso le due informazioni e avevo continuato ad attendere che Pantani si decidesse a tornare a fare il “Pantani”. Cioè quello che volevo io, quello del ‘98. Quando mise a segno la storica doppietta, Giro – Tour. Come, tra gli italiani, soltanto Fausto Coppi.
Ricordo ancora la copertina del settimanale “Sorrisi e Canzoni TV” che lo ritraeva a torso nudo con in mano due maglie: quella rosa e quella gialla. La stessa foto venne fatta, quasi cinquanta anni prima, al Campionissimo, primo ciclista al mondo a vincere Giro e Tour nello stesso anno. Nessun ciclista italiano era più riuscito a centrare l’impossibile “doppietta”. Nessuno prima di Pantani.
Avevo avuto uno strano, quasi adolescenziale, processo di identificazione con il “Pirata”. Tutto nasceva forse da una questione prettamente fisica: ero alto come lui e pesavo esattamente come lui, uno e settantuno per cinquantaquattro chili. Oppure, era solo una questione di empatia morale: il vederlo sempre sfuggente e in qualche misura velato di malinconia mi ricordavano tratti del mio carattere.
Per questo mi ero spinto, forse inconsciamente, a rimuovere quelle due notizie, lette di fretta e quasi per sbaglio.
Adesso però quel flash di agenzia sentito per radio ha riportato a galla tutto. Il quadro si delinea a mano a mano, mentre attendo con ansia conferme. Che puntualmente arrivavano: il ciclista Marco Pantani è deceduto, il corpo rinvenuto in una stanza al quinto piano del Residence “Le Rose” di Rimini, overdose di cocaina. Il locale pare fosse chiuso dall’interno dallo stesso ciclista e in totale disordine: scaraventati per terra c’erano oggetti e mobili tra cui un forno microonde. Il riscaldamento tenuto al massimo. Nella stanza pare si crepasse di caldo. Vicino alla guancia una macchia di sangue ormai rappreso.
Mentre guido, tolgo la mano dal cambio e dò una gomitata a Francesca, che dorme di fianco a me: “Hey, è morto Pantani!” (…)
(CONTINUA, abbiate fiducia… )
Due Parole
Marco Pantani morì oggi, il 14 febbraio – giorno di San Valentino – di 14 anni fa. Una fine tragica che ormai tutti conosciamo bene, overdose di cocaina. “Addirittura!”: questo fu il laconico commento del giornalista di Sport2Sera, non appena apprese dalla regia il dispaccio ANSA che annunciava il decesso del ciclista. Era sabato e c’erano stati gli anticipi del campionato di calcio di serie A, ci si apprestava commentarli e a parlare soprattutto di Juve, non certo di questa scocciatura di un ciclista morto drogato.
Su quella fine tragica di Pantani si è detto tutto e il contrario di tutto, si sono fatte illazioni, supposizioni, vere e proprie speculazioni. Sono stati sentiti testimoni, veri o presunti, ci si è persi in un meandro che talvolta ha finito per sconfinare nello sdrucciolevole terreno delle leggende metropolitane.
Sono stati scritti fiumi di carta: libri, saggi, persino pièce teatrali. Una morte indubbiamente, a prima vista, succulenta: degna di una rock star (Brian Jones, Sid Vicious o Kurt Cobain, fate voi).
In questo mare magnum psico-letterario, io non mi sono mai avventurato, non oso farlo certo adesso. Anche perché – devo essere sincero – non mi importa granché. Tanto non serve a resuscitare Marco. E, al massimo, io a quello potevo essere interessato.
Preferisco allora ricordare Pantani per quello che era e che ha rappresentato per me personalmente, una metafora di tante cose. Un simbolo (dal greco σύν «insieme» e βάλλω «gettare»: getto, dunque “metto”, insieme) che ho avuto la fortuna di vedere in azione dal vivo con i miei occhi. Un po’ come mi è successo con Maradona, Senna e Björn Borg (nella vita sportiva, devo ammetterlo, un discreto culo l’ho avuto).
Di questo ed altro, parleremo qui nei prossimi mesi. #StayTuned.
Nel frattempo, oggi, vi abbraccio tutti, un po’ più intensamente del solito.
Foto: Paolo Ciaberta