Timmel – Shock.

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Eravamo rimasti al Rombo. Già, proprio lui.
Quel passo che mi ha stregato.
Ero salito in auto, col babbo, dal versante italiano, ricordate? Quello affrontato dallÖtzaler Radmarathon. Proprio lui: San Leonardo in Passiria – Timmesljoch. 29 km, 1700 metri di dislivello. 
Beh, quella che segue è un’altra storia  e ovviamente fa parte anche lei del libro. È quella di un altro passo Rombo, di un’altra salita, di altre emozioni.  Forse ancora più belle. Oserei dire la  più bella e intensa salita fatta ad oggi.
Dai, non vi rovino la sopresa: leggete. E – consiglio spassionato – correte a farla.
Se vi manca ancora una spintarella, la trovate qui.


(…) 
È una giornata bellissima, il cielo è terso e il sole è già sorto da un po’ dietro le montagne e mi guarda di lontano. Non si vede una nuvola. Ci sono cinque gradi, lo leggo dal termometro della farmacia qui davanti: in montagna, alla mattina, non si scherza mai.

Prima di mettermi in sella, scatto una foto con il telefonino alle Alpi dello Stubai, che incombono su di me, con le loro vette immacolate e i loro boschi fatati. Le Alpi dello Stubai sono quelle che dividono l’Italia dall’Austria, l’Ötzal dalla valle Isarco. Uno spartiacque naturale.

Faccio prima qualche chilometro di riscaldamento, con rapporto agile, una decina in tutto. Vado verso il paesino di Ötz, perlustro tutto il primo tratto di gara, quello più veloce, in falsopiano. Qui domani si partirà subito forte, 50 all’ora come minimo. Occorre essere pronti e, soprattutto, tutt’occhi, guardare davanti e contemporaneamente per terra. Evitare buche, borracce che cadono o altri ostacoli e pensare che quando piove i freni rispondono molto più lentamente del solito: il cerchio bagnato, soprattutto se in carbonio, rende praticamente vano il primo colpo di freni. Occorre aspettare qualche istante che il cerchio si asciughi e i pattini ritrovino la loro naturale aderenza. Se non lo sai, alla prima pinzata che dai alle leve dei freni potresti venir preso dal panico. Come quella volta scendendo dalla Presonala con Daniele: si era scatenato un temporale improvviso e noi dovevamo raggiunger l’auto, lasciata pochi chilometri più a valle, a Clusone. La Presolana è un passo lombardo, in provincia di Bergamo, abbastanza basso, ma con una discesa piuttosto lunga e trafficata, che richiede attenzione già quando è bel tempo. Al primo colpo di freni che diedi sotto l’acqua, quella volta, mi accorsi che la bici non rispondeva: non faceva una piega, andava avanti come le pareva lei.

Diedi allora una seconda pinzata con le leve, sbandai leggermente ma questa seconda volta la bici rallentò. Tirai il fiato e imparai. Da quel momento so cosa vuol dire frenare sul bagnato.

Non voglio stancarmi. Alla prima rotonda, faccio il giro e torno indietro lungo il corso dell Ötz. Vedo alcuni ragazzi che si preparano a fare rafting, indossano i caschi, le imbragature e i giubbotti di salvataggio. Si apprestano a immergersi in quell’acqua gelida.

In un attimo, sono di nuovo a Sölden davanti all’albergo. Venti chilometri potrebbero anche bastare, potrei fermarmi qui. Ma decido di proseguire, qualcosa mi attrae e mi spinge ad andare avanti. Non riesco a resistere al richiamo, fortissimo, del Timmelsjoch, il passo Rombo. Da quando sono qui, continuo a pensare alla strada fatta ieri. Credo di averlo persino sognato stanotte. E ora ce l’ho proprio davanti, a portata di mano, sembra chiamarmi. Voglio farne almeno un po’ di quella meraviglia, qualche chilometro, nulla di più.

Anche perché ieri era tutto nuvoloso, mentre oggi, invece, c’è il sole e dovrebbe essere l’unico giorno di bel tempo di tutto il weekend. Non fare nemmeno un pezzetto di quella salita con questa giornata sarebbe un delitto. Così inizio a salire: “solo qualche chilometro e torno indietro”.

Pedalo lungo la valle finché inizia la salita. Fa freschino ora che sono tornato in ombra, coperto dalla massa monumentale della montagna. Mi sono appena chiuso la zip della mantellina anche se so che tra poco avrò caldo. Quello – mi dico – sarà il segnale che devo tornare indietro.

Invece no: anche quando comincio a sudare, quasi sedotto dal lento e ritmico suono del mio respiro, decido di proseguire. Non torno indietro. Mi sfilo, senza scendere dalla bici, la mantellina. La comprimo in qualche modo e la infilo nella tasca posteriore della maglia.

Supero gli ultimi gruppi di case della valle e decido di andare avanti, affrontando, uno a uno, la prima serie di tornanti che salgono verso il casello della dogana, dove ieri in auto abbiamo pagato il pedaggio. Non mi fermo, il cielo è sempre più blu, le nuvole, appena sorte, non lo disturbano affatto. Anzi, lo rendono ancora più bello e intenso.

Le pendenze sono dolci e sto pedalando piuttosto bene, con una frequenza di pedalata alta, come si deve in questi casi: 70-80 pedalate al minuto, l’ideale per far girare la gamba e non affaticarla. Alterno un tratto seduto a uno sui pedali, tenendo sempre un rapporto agile: 34X23 o giù di lì. Perché dovrei fermarmi?

Non penso a niente. Dimentico quello che mi aspetta domani, le tensioni lo stress, i dubbi, li lascio scorrere via come l’aria che mi viene addosso. Sono catturato da questo momento di quiete totale e perfetta armonia e mi lascio guidare da me stesso: “Arrivo fino alla dogana e torno indietro”, mi dico. Ho fatto, senza accorgermene, più di quindici chilometri di salita e sono già troppi. La sbarra per le auto è abbassata, un cartello con l’icona della bicicletta indica che i ciclisti possono passare più a destra, senza pedaggio.

Ormai sono a duemila metri di quota. Qui si comincia a ragionare: la mente, quella razionale, non ne vuole sapere di tornare indietro. Dice di andare avanti. La seguo senza incertezze.

Mi alzo sui pedali e indurisco il rapporto di un dente: ora 34X21. Non mi fermo più, sto così bene che potrei andare avanti all’infinito.

Il cielo ogni tanto si rannuvola, ogni tanto si riapre, in un gioco di luci e ombre che mi seduce. A un tratto incrocio un ciclista a velocità supersonica in discesa, sento il sibilo delle sue ruote quando mi passa a fianco, starà andando almeno a settanta all’ora. È la prima figura umana che incontro da quando ho iniziato la salita. Credo non mi sia mai capitato. Noto che è ben coperto: mantellina, guanti, persino passamontagna. Sembra un’apparizione, un elfo sbucato dai monti. In discesa farà freddo, devo tenerne conto.

A un tratto, ecco il rettilineo bellissimo, quello dello spot della Garmin. Mi ci trovo nel bel mezzo, da solo come il protagonista del video, senza niente davanti e niente di dietro. Quella lingua d’asfalto perfettamente dritta pare tagliare in due la montagna mentre si infila in mezzo a due creste, quasi fosse il punto centrale di un reggiseno. I seni, prosperosi, le cime immacolate. Una a destra, l’altra a sinistra.

Che foto farebbe qui Emiliano?

Ormai è chiaro, arriverò fino in cima al Timmesljoch. Altro che qualche pedalata e torno indietro, 25 chilometri di salita. Supero il punto in cui il protagonista dello spot ha dovuto fermarsi per la slavina: oggi la strada è perfettamente sgombra e la neve è soltanto molto più in alto, almeno a temila metri.

È la mia strada, non potevo prenderne nessun altra. Indurisco di un altro dente il rapporto – 34×19 – e provo uno scatto: mi sento proprio bene. Il lavoro fatto ad agosto in Liguria, su e giù per le salite dell’Appennino, dietro casa di Francesca, è stato utilissimo. Probabilmente non sono mai stato così in forma per una gara. Me l’ha detto anche lei che di bici non ne capisce un granché.

Supero le dure pendenze del rettilineo e assecondo gli ultimi tornanti che mi cullano come le braccia di una fidanzata fino alla cima del passo. 2505 metri esatti sul livello del mare. Tiro il fiato.

Mi fermo vicino al cartello dell’altitudine, “Timmesjoch – Hochalpenstrasse”, ascolto il mio respiro affannoso calmarsi piano piano. Sono vivo.

Questa volta, il valico non è avvolto dalle nuvole come ieri, non fa nemmeno freddo, c’è il sole e il cielo è pulito come raramente ne ho visti. Posso persino guardare oltre, al di là dello scollinamento, verso il versante italiano e la val Passiria. Lo spettacolo è abbacinante, ieri non avevo potuto accorgermene. Scorgo le stradine a valle, distinguo persino delle case, devono essere Shonau e Moso.

Ho appoggiato la bici al cartello stradale ma il vento rischia di farla cadere, e il carbonio non ha mai un buon impatto con il terreno perché è un materiale eccezionale e leggerissimo, ma estremamente fragile. Le crepe non te le mostra, se le tiene tutte per sé, al suo interno, finché poi ti fa pagare il conto tutto d’un colpo, magari cedendo di schianto. Un telaio in carbonio tranciato in due non è un bello spettacolo. È capitato a Pietro, l’amico randonneur, investito, per fortuna senza conseguenze, mentre pedalava sul lungomare di Noli ligure. Lui indenne, la bici da buttare: il telaio spezzato in due, me l’ha mostrato, sembrava un giocattolo in plastica caduto dal terrazzo.

Mi appoggio con la schiena alla mia Cinelli e la tengo, non la lascio cadere mentre ascolto il vento fischiare lungo il tubo del cannotto reggisella. In quota c’è sempre aria: sul Gavia, sul Galibier, sullo Stelvio, stessa storia. Mangio una barretta e la mando giù con un sorso d’acqua di fonte Rimetto la mantellina, la chiudo fino al bavero: c’è il sole, siamo sopra lo zero, ma in discesa stavolta voglio volare.

All’improvviso, come l’ultimo dei suoni che ti aspetti di sentire, ecco il motore di un auto: è arrivato un pickup. Sulle fiancate c’è scritto bello grande “Ötztaler Radmarathon”.

È un mezzo dell’organizzazione. Si aprono le portiere e ne scendono quattro ragazzotti biondi e nerboruti, che indossano soltanto una maglietta e dei guantoni gialli da lavoro. Mi guardano come fossi un marziano e poi cominciano a scaricare delle transenne e prendono a montarle. Stanno approntando il check point finale del passo Rombo, dove domani verrà preso a ogni concorrente l’ultimo rilevamento cronometrico, prima dell’arrivo  a Sölden, alla Freizeit Arena.

È tardi, mi sono spinto fin troppo in là e lo so.

Volto la bici e inizio la lunga discesa affrontando la serpentina di tornanti, poi il drittone, infine alzandomi sui pedali lungo i due chilometri di salita, l’ultimo “dentino”, che riporta al casello della dogana austriaca. E poi, giù in picchiata, di nuovo verso la valle dell’Ötz. Guardo il contachilometri: 73 all’ora. Non male per uno che non è un Falco Savoldelli.

Con la coda dell’occhio guardo un’ultima volta le bellissime montagne passarmi di fianco come una mandria di bufali impazziti. Sono le cosiddette Alpi Retiche Orientali, con le loro cime alte, dal cuore ghiacciato. Non ho ancora toccato i freni, mi sento sicuro e in perfetta simbiosi con il mio mezzo. La mantellina sbatacchia al vento come la vela di una barca in mezzo all’Oceano.

Dopo la dogana e la fitta serie di tornanti ripidi saliti poco fa, mi lascio alle spalle anche il piccolo paesino di Obergurgl, quattro case e un nome impronunciabile. Ho letto da qualche parte, prima di partire, che qui facevano base un tempo i contrabbandieri del passo del Rombo, antichi portatori di gerle che vivevano nel timore e nel rispetto per le montagne incombenti. E come dargli torto?

La strada fa paura ora che c’è, figuriamoci quando ancora non c’era: si dovevano muovere, in gran segreto, attraverso sentieri pericolosi e ripidissimi e non sempre ne uscivano vivi.

La carreggiata prosegue dritta, riabbracciando il fiume Ötz, lasciato stamattina. Mentre pedalo, incontro alcune gallerie aperte, sono i paravalanghe. Servono a proteggere la strada dalle slavine. Durante la salita, curiosamente, catturato dal paesaggio, non mi ero accorto della loro presenza. Il traffico comincia a farsi sentire, mano mano che scendo, incontro auto, moto, camper e, ovviamente, altri ciclisti. Anche loro stanno facendo la sgambata del giorno prima.

Nel giro di qualche chilometro, senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovo nel centro di Sölden. Adesso è tutto un brulicare di ciclisti in festa: chi si saluta, chi si concentra in uno scatto, chi si ferma per un caffè al bar con l’amico che non vedeva dalla Novecolli. È il momento più bello: il giorno prima. Si respira una bella atmosfera, di tensione, certo, ma anche di piacere, voglia, entusiasmo. È l’aria serena della granfondo. (…)

IMPORTANTE: Tutti i materiali, le riflessioni e le anticipazioni sul libro in uscita per Fabbri, li trovate raccolti in CICLOFFICINA.