Sister Morphine

La cima de la Bonette si trova a 2802 metri di quota. Il nostro Stelvio, per dire, è a 2758. Un po’ più in basso. Si tratta di un’inezia, in fin dei conti. D’accordo, ma un’inezia, questa, che contiene molte, moltissime cose e soprattutto diversi perché. Per capirli tutti ho dovuto percorrerla per intero, resistere alla tentazione di fermarmi al valico, posto qualche decina di metri più in basso. Perché la cima de la Bonette non è un passo, sali ma poi con una assurda curva ridiscendi, fino al valico. Pedalarci soffrendo, venire sferzato dal vento e colto dallo sconforto. Però poi una volta in cima, ho capito perché valeva la pena arrivarci. Signore e signori, benvenuti nel 3° capitolo del mio ultimo libro Tornanti e altri incantesimi (Enrico Damiani Editore): il Col de la Bonette

Quando sei lì, la sensazione di essere al di sopra di tutto e di tutti è davvero molto forte, direi perfino ubriacante, è quasi onnipotenza. Forse è il mal d’altura, o la scarsezza dell’ossigeno, oppure ancora la fatica. Fatto sta che sei stordito, piacevolmente anestetizzato.
La Bonette è come la morfina.
Il cucuzzolo della montagna, la vera e propria cime de la Bonette, è un ammasso di pietre scure e levigate dal vento, che ricordano vagamente una distesa vulcanica. L’Etna, dove non sono ancora stato in bicicletta, mi dicono sia così. Le raffiche qui sono persistenti e molto forti, capaci di scaraventarti a terra con la bici. Fatichiamo non poco a rimanere in equilibrio e a guadagnare il punto più alto. Sento il fiato che si fa sempre più in corto e le pulsazioni che salgono impazzite, sono abbondantemente fuorisoglia. Max, dietro di me, prende a imprecare. Un modo come un altro per esorcizzare i crampi e la paura di non farcela.
Ma è un attimo. Poi si arriva. E lo spettacolo è avvolgente.
Siamo circondati da un mare interminabile di montagne. Creste irregolari come punte di diamanti, ovunque, a trecentosessanta gradi. Da nord a sud, non vedi altro che rocce, cime, culmini. La terra che sale e poi ridiscende dritta, d’improvviso, come fossimo sull’ottovolante. È il frutto del lavoro delle placche che si scontrano e si piegano, salendo verso l’alto.
Io un panorama così, con questa cornice sontuosa di Alpi, non l’ho mai visto. Sono letteralmente soggiogato.
E come un fulmine, ecco che a nord scorgo anche lei. La mia montagna preferita, il Monviso. Il gigante di pietra ormai divenuto bussola definitiva della nostra avventura. Sappiamo che dove c’è lui siamo sulla retta via: lì dovremo tornare.
Più a sud, dove le vette si fanno invece, via via più dolci e arrotondate, scendendo di quota, si presagisce, pur non vedendola, la presenza del mare.
Capisco ora che l’unione di questi due parchi nazionali, Alpi Marittime e Mercantour, fosse una cosa naturale, spontanea. Non aveva senso dividere questo territorio in due. Un posto dove gli animali si muovono liberi da una valle all’altra gestendo come meglio credono le proprie migrazioni.
Così quando i contadini piemontesi trovavano un camoscio con l’orecchio marchiato da una placca che non era la loro, capivano che veniva dalla Francia e che non potevi chiuderlo dietro uno stupido confine geografico, sarebbe tornato come e quando voleva. Quella era un’area dove le frontiere in realtà non esistono. Gli animali vagano liberi
(…)

Dopo una salita così lunga, ti senti svuotato in ogni fibra del corpo. Sei preda di una stanchezza sorda, generale. Non sapresti dire cosa ti fa male, è come se avessi lasciato sulla strada tutto.
A valle, prima di iniziare a salire, non soffiava un alito di vento. Le borracce erano piene, ma non sapevamo se ci sarebbero bastate fino in cima. Alla voce “Punti di ristoro”, la guida che avevo consultato si limitava a dire: «Niente di sicuro, quindi riempite bene le borracce prima di partire».
Niente di sicuro?! Cosa vuol dire?
Dopo quindici chilometri le avevamo vuotate. Eravamo allo sbando.
Poi, come sempre in queste situazioni, una sorta di apparizione, un miraggio d’altura ci è venuto incontro. Una piccola baracca di legno, sulle prime abbiamo pensato a un capanno per gli attrezzi, ma poi no, una incredibile insegna al neon come quelle di un cinema o di un casinò, la luce intermittente, bella come un fiore nel deserto: bar!
Una volta Jacopo, amico ciclista amante delle ultra-distanze e delle pedalate in notturna, mi ha detto che le stazioni di servizio rappresentano un punto di riferimento imprescindibile, un’ancora di salvezza nel mare della fatica, per ogni randonneur (ciclista delle lunghe distanze)
(…)

Salvi. Due bottiglie di Orangina, due di coca-cola, due litri abbondanti d’acqua scolati d’un fiato. Il gestore, un pastore francese trasferitosi qui con le sue galline, ci ha fissato attonito. Forse ha temuto persino che gli svaligiassimo le provviste. Chissà da quanto qualcuno non si fermava nel suo capanno-bistrot. Quella luce al neon non la dimenticherò mai, ho capito in quel momento, in mezzo al nulla di pietre, in preda allo sconforto, cosa intendeva Jacopo a proposito delle stazioni di servizio.”

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foto: ©ciclistapericoloso