Dio, che sete!

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Ho sete adesso, dò una sorsata alla borraccia che oggi ancora mi pare di non averlo fatto, prendo una spugna fradicia che mi porge un tifoso a bordo strada e me la schiaccio contro la tempia. L’acqua di cui è imbevuta mi pare freschissima, la più buona di sempre. Gronda giù sulla guancia, tracima lungo il collo, s’infila persino, benefica, nella mia maglia rosa, le mie membra stanche ne godono come un deserto della prima pioggia dopo decenni. Devo attaccare ancora però: è vero che dietro non mi hanno seguito, ma è meglio non concedere che un istante. Armstrong, mi dicono, è rimasto piantato sui pedali, che gioia. Mentre mi alzo fuori sella, sono tutti attoniti, mi guardano come venissi da un altro pianeta. Lo stesso dove ero due anni fa, il Galibier. Sono tornato, maledetti, cosa credevate?

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Passati Botero e Nardello, davanti rimane un solo corridore da “bocciare”. Sfortuna vuole che sia il mio amico José María Jiménez. Grimpeur come il sottoscritto. Jiménez è spagnolo, in gruppo lo chiamiamo “El Chava”, che significa il selvaggio. Che bel soprannome, Dio solo sa quanto glielo invidio. Chi va in salita, ne so qualcosa, è selvatico per natura. Non si mette a fare calcoli, non si fida della matematica, dimentica i numeri, ascolta solo i sentimenti (…)
Meno cinquecento metri. Dio santo, il cuore mi esplode. Questa maglia rosa la farò a brandelli se continuo così. Le gambe non le sento, forse ho persino i crampi, l’acido lattico fa festa in tutte le fibre del mio corpo. I muscoli si contraggono al contrario in modo innaturale, in viso mi si dipinge una smorfia che nessuno aveva mai visto prima. Meglio che non mi inquadrino in questo momento: niente primi piani, mamma Tonina si spaventerebbe. Sembro, sono, un disperato. Meno duecento metri. Già, hai detto niente. Duecento metri nel ciclismo moderno possono essere tutto. Oppure anche niente. Dipende.Meno cento. È fatta, Marco. Tira, spingi, sbuffa, soffri. Da capo.

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Ah, e se puoi, per carità, fai tutto questo in silenzio. Goditele queste urla, ascoltali questi passi lesti e veloci dei tuoi tifosi che t’inseguono impazziti, bevila quest’acqua che ti tirano addosso coi loro secchi colmi fino all’orlo. Poco fa un cicloamatore – dicono fosse un indipendentista basco – si è infilato nella corsa! Indossava il completino della Kelme, una squadra mia avversaria. Credevo fosse uno di loro. Ma era impossibile, li avevo schiantati tutti. Possibile avessi fatto male i calcoli? Sul petto di quel mitomane campeggiava una scritta «Libertà per i prigionieri baschi». La sua stazza, decisamente eccessiva per essere un ciclista professionista, avrebbe dovuto insospettirmi.

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Meno cinquanta metri, è fatta. Spingi, sbuffa, spingi, alzati ancora. Fallo e rifallo un’altra volta. Non lo vedi che sei il ciclista italiano più amato di sempre? Che sei lo scalatore più forte di ogni era? Che sei pirata, filibustiere, contrabbandiere del dislivello? Che sei la a pioggia e la tempesta che non smette ma insieme anche il sole pieno? E allora, porco diavolo, spingi pirata, sbuffa, spingi, alzati, tira, sbuffa, arranca come puoi. È fatta.
Stai seduto ora, il cuore pompa a mille, non hai la forza di alzare nemmeno un braccio in questo momento. Al massimo un dito, con quello indica il cielo. Fallo tintinnare al vento, quasi stessi suonando un campanello. C’è nessuno in casa? Sono lo scalatore d’altri tempi Marco Pantani, questa la mia ultima impresa.

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Mi basta il Carpegna quando sono a casa e mi alleno duramente: salgo e risalgo fino allo sfinimento il colle romagnolo che conosco a memoria, come fosse la schiena della mia ragazza. Niente ritiri in altura per me, niente ossigenazione sul vulcano Teide a Tenerife, io sto bene a casa, a Cesenatico. E lì mi faccio la gamba su una sola salita. Allo stesso modo, oggi mi basta il Galibier per prendermi la maglia gialla.

(da “Gli italiani al Tour de France” – Utet 2018)

In everlasting memory of Marco Pantani (13 gennaio 1970 – 14 febbraio 2004)