In assenza di vento, gli aquiloni non volano.

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Intervista semi-seria a Gianni Mura.
Sì, è vero ci vuole “carattere” per scrivere di ciclismo. Anche perché questo sport non è più quello di una volta. I campioni si risparmiano, iniziano ad andare soltanto sull’ultima salita. Corrono spesso solo da luglio a luglio e sembrano non volerne sapere di rischiare alcunché. Che disastro. Il Tour de France lo ha vinto, confermando le più ovvie previsioni, Chris Froome, e non certo per colpa sua.
E l’unico che riesce ancora a essere un fiore nel deserto è uno slovacco coi capelli lunghi e dall’aria un po’ guascona. Per capirci qualcosa di questo ciclismo d’oggi occorre accendersi più di una sigaretta. E, per scriverne, forse anche cento: “vi auguro di avere carta per i prossimi 20 anni” mi dice sorridendo amaro.
Cronaca di una piccola, ma lunga  – ve lo dico subito – chiacchierata tra il sottoscritto e Gianni Mura, storica “penna buona” dello sport di Repubblica.

È una giornata uggiosa e nebbiosa, tipicamente milanese. Non fa freddo però. Arrivo nella sede di Repubblica e chiedo di lui, con il quale ho preso appuntamento senza particolari problemi – Gianni è disponibilissimo  – alcuni giorni prima. Mi mandano su ai piani alti, lui mi viene incontro e mi offre un caffè alla macchinetta, non lo prendo. In realtà è solo una scusa per fumarsi (lui) una sigaretta sulla scala antincendio, la prima di una lunga serie. Il nastro parte, la discussione prende il via spontanea e generosa, senza particolari impedimenti. Non si interromperebbe mai, se non per i contingenti impegni di ciascuno dei due. Di quelle giornate da stamparsi bene e mandare a memoria. Quanto segue ne è la fedele trascrizione, riassunta per comodità in 8 punti.

PS: se riesco, quando avrò tempo, vi prometto anche il podcast. Per ora accontentatevi di leggere, che è un po’ come scrivere. Gesti primitivi da difendere con le unghie e con i denti, come su una immaginaria linea del Piave. Amen.

1 – Il carattere del ciclista
Sì è vero, come spiega nel suo libro, non tutti ce l’hanno. Ma chi l’ha avuto, non ha potuto che farsi guidare da questo. Prenda Gianni Bugno, lei dice “Indecifrabile”, io lo chiamai “Vedremo”. Perché non sapevi mai cosa ti potevi aspettare da lui. Aveva tutto per essere il numero uno, anche un bello stile, e invece non ci riuscì fino in fondo. Avrebbe potuto (e dovuto) vincere molto di più.
Forse shakerando lui e Chiappucci, che aveva meno classe ma era più spavaldo, si sarebbe ottenuto il ciclista perfetto. Gianni andava forte a cronometro, andava forte in salita, almeno prima di ingrassare, andava dappertutto. Intendiamoci, ha vinto parecchio. Ma a me ha sempre lasciato un senso di incompiuto. Come se si accontentasse. Il mondiale di Benidorm è emblematico da questo punto di vista: si era rassegnato a una volata da battuto, non ci fosse stato Perini a tirarlo non avrebbe vinto. Si lasciava influenzare da fattori minimi: brutto tempo visto dalla finestra, due folate di vento.

2 – Il Coriaceo Bernard
Più che coriaceo direi incazzoso. Una volta fece a pugni con dei portuali che scioperavano. Era un campione che correva da marzo a ottobre. Odiava solo la Roubaix, “corsa di merda”. poi la vinse e disse “sempre una corsa di merda, ma che ho vinto”. Aveva una costituzione fisica simile a quella di Bartali, forte, muscoloso, da combattente. Sì, coriaceo ci sta.
In quegli anni seguivo il Giro d’Italia, cambiando un’ammiraglia al giorno. Un giorno a Pestum mi trovo in quella della Renault -Gitanes con Guimard,  e mi vedo tutta la tappa dietro Bernard che sbuffa, soffre mai poi vince. Sulla strada noto uno striscione poco lusinghiero nei suoi confronti: “Hinault, il sole del sud ti incenerirà”. All’arrivo Bernard mi dice: “ho fatto vedere quanto il sole del sud incenerisce”.
Arrivati in hotel, notiamo un cesto pieno di triglie che si muovevano ancora: “stasera frittura per tutti” ordina Hinault. Gli chiedo: “Ma come? Voi ciclisti non dovreste mangiare tutto al vapore o al sangue?”, “Io non devo mica trattare il mio corpo come quello di un bambino malato” mi risponde lui. In questo, Hinault era esattamente come Bartali o Nencini, che fumavano o bevevano.

3 – Fossili, esultanze  e altri incantesimi. 
Erano quasi tutte esultanze tristi quelle di Pantani. Anche nel ’98. Una volta mi spiegò in privato che il momento più bello per lui non era la vittoria, lì non aveva più nemmeno la forza di tirarsi su la zip della maglia. Il momento più bello era quello in cui irmaneva da solo, dopo aver staccato tutti.
Pantani veniva da tempi lontani. Era un grande fossile preistorico, il “Pantadattilo”: uno scalatore puro in un periodo in cui vincere in salita non bastava più, occorreva essere forti, o comunque sapersi difendere, anche e soprattutto a cronometro. A lui invece bastava la salita. Dunque qualcosa al di fuori dai tempi, risalente all’epoca di Coppi e Bartali. Era un ciclista così amato perché non lo si vedeva da un pezzo, e, morto lui, non si è più visto. Aveva catturato l’attenzione di tutti, quando correva l’Italia intera si fermava. Forse ai bambini sembrava un cartone animato, come Dumbo, per via di quelle orecchie così grandi e sporgenti. Magico, quasi irreale.

4 – Il carattere di Nibali
Nibali è senz’atro “l’orgoglioso”. Vedi il discorso di sopra. Non è cioè ancora dipendente dalle tattiche al 100%. Riesce ancora a fare qualcosa che gli altri da lui non si aspettano, e questa per me è l’essenza del ciclismo. Vincenzo mantiene in qualche modo il gusto disperso del colpo a sorpresa, è uno che sente la responsabilità della corsa, non corre tanto per correre, la deve “marcare” stretta, fiutarla. E siccome in volata è praticamente fermo, deve fare qualcosa prima, deve provarci e talvolta riesce a emozionare come un tempo. Per intenderci, io credo che Aru deve mangiarne ancora di michette per arrivare ai livelli di Vincenzo. Del resto è anche giusto: è molto più giovane, ha tutta la carriera davanti.

5- Sagan e il gioco.
Sì, ma intendiamoci: Sagan oltre al “gioco”, è anche gambe. Quelle che gli altri non hanno. Si tende a dimenticarlo. Lui è così pittoresco che si finisce per scordarsi quanto vince e da quanto tempo, perché lui vinceva già agli esordi alla Liquigas. Arrivare nei primi 5 in più della metà delle corse cui partecipi (dato reale), vuol dire essere straordinariamente bravi. Tutti ricordano quando Peter impenna con la bici, ma accidenti se viaggia! Uno così si merita tutto.
Dopo di che, il gioco è la sua essenza, concordo con lei. O quantomeno l’allegria. il ciclismo è sempre stato lo sport dei forzati della strada, dell’epica della fatica, volti tirati, musi lunghi, personaggi spesso tristi. Sagan invece gioca, si diverte, toglie peso. Ci rallegra.
Anche Cipollini, se è per questo, richiamava i fotografi, piaceva, divertiva. Ma Sagan ha qualcosa in più: è atleticamente molto più forte.
Lunga vita a Peter Sagan allora. Fa bene a tutto il ciclismo. E poi è molto generoso di sé: è uno che non si risparmia mai, corre dalla Sanremo al Lombardia come si faceva una volta. Le classiche le fa quasi tutte, mi pare, e ha un fisico che un giorno potrebbe consentirgli di vincerle anche tutte, tranne forse il Lombardia.

6 -Il Giro d’Italia numero 100.
Sarà un’edizione celebrativa, inevitabile ma anche giusto che sia così. Ci sarà la tappa Coppi – Pantani, ci sono altre frazioni dedicate alla storia del nostro ciclismo, un bene così prezioso.Il Giro è spesso sì rivolto al passato e magari con un velo di nostalgia, ma forse non può che essere così. E se non altro quest’anno ha il merito di partire coraggiosamente dall’Italia e non dall’estero, l’altra grande moda. Secondo me tra qualche anno assisteremo a una partenza di una corsa a tappe da New York o da Pechino. E io, per la cronaca, ho già deciso: la boicotterò.

7 – L’Accademia di Brera
Sì, sono stato un discepolo di Gianni Brera. E non posso che ringraziare la fortuna di avermi dato questa opportunità più unica che rara. Gianni mi ha insegnato tanto. Ma da lui ho imparato anche che non bisognava cercare di imitarlo. Guai! Anche perché, se ti beccava, si incazzava non poco. Punto primo, diceva di stare attenti alla retorica: “quando scrivi di sport le parole si gonfiano come muscoli” e bisogna starci attenti, evitare l’effetto “barocco”. Un tranello da inesperti, sempre in agguato dietro l’angolo.
Ci frequentavamo molto io e Gianni, mentre io ero a Repubblica e lui alla Gazzetta o a Il Giornale. Ci vedevamo anche fuori dalle redazioni, anzi forse soprattutto fuori. Sa, io oggi ho la sua Olivetti a casa poggiata sulla scrivania e un lettore, proprio ieri, mi ha mandato questa (mi mostra una foto che li ritrae assieme: il giovane Gianni seduto, sigaretta in bocca, e quello più “anziano” in piedi mentre sorride, deve aver appena coniato un nuovo aggettivo sostantivato)

8- Cassetta degli attrezzi
Per scrivere di ciclismo ci vogliono diversi arnesi. Ci vuole senz’altro un po’ di Brera e un po’ di Fossati, un tocco di Alfonso Gatto ma anche una spruzzata di Giovanni Mosca e un velo di Buzzati. Ma non basta. Nel ciclismo è fondamentale, prima ancora che saper scrivere in un ottimo italiano (conditio sine qua non), avere una sensibilità particolare. Quella che ti fa notare dettagli che gli altri non noterebbero.
Ma se uno mi dice che vuole scrivere di ciclismo oggi, non posso che rispondergli: “ti auguro di avere carta per i prossimi 20 anni”. I tempi sono contrari a una buona scrittura, sono favorevoli invece a una velocità di scrittura. Che non vuol dire essere bravi, ma appunto “veloci”. C’è la ricerca ossessiva di una “compressione” dei testi. I pezzi di Gianni Brera dal Tour erano lunghi almeno 200 righe, per un Atalanta – Fiorentina poteva scriverne anche 120, io per la finale dei Mondiali di calcio del 2006, quella della testata di Materazzi a Zidane per intenderci, avevo 71 righe a disposizione. Sette – uno. Veda lei.
Una volta si era in 3 e si scriveva per 7. Adesso si è in 7 e si scrive per 3, i pezzi sono poco più di un telegramma. Diventa difficile fare esercizi di stile in queste condizioni. E in assenza di vento, gli aquiloni non volano. È una legge fisica.

Ringrazio personalmente Gianni per la disponibilità e le parole. Di cui vedremo di fare buon uso.

Scopri di più su Il carattere del ciclista (Utet 2016)

Foto Credits: ciclistapericoloso