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Figurine.
Ognuno di noi ha delle figurine. No, non sto parlando di quelle Panini, anche se questa storia racconta anche di quelle. Sto parlando di figurine dell’anima: quelle che rendono felici e ci fanno sentire di avere delle radici, di essere parte di qualcosa di importante. Quelle che scopri quando per caso sfogli un vecchio album di famiglia. Così, per lo meno, è capitato a me. Ci ho messo poco a capire che nel libro, questa storia, non poteva mancare. Non è stato facile raccontarla, o forse sì: ho dovuto andare a rovistare nei ricordi, anche dolorosi, più lontani e compiere un duro lavoro di ricostruzione, intervistare e rompere l’anima ai parenti più stretti per recuperare la parte “sommersa” della storia, quella che non sapevo.
Alla fine credo però ne sia valsa la pena.
Se non altro per salvare i ricordi dall’oblio e “redimere il passato”, come diceva lo zio Walter Benjamin, un altro di famiglia.
In anteprima, eccovene un breve estratto.
A Milano, quel giorno di metà gennaio, veniva giù una neve sottile, leggera, di quelle che non potevano certo far bene a un cuore a singhiozzo. Doveva andare a prendere la mamma e Giuliano, mio fratello, in piscina. Non fece nemmeno in tempo ad arrivare al garage dove era parcheggiata la sua Fiat 128 verde: sulla rampa, mentre scendeva, si è accasciato. Non ci fu niente da fare, e forse è stato meglio così. Oggi si direbbe che è morto giovane. All’epoca si disse che era morto bene.
Io penso però che non si possa mai morire “bene”. E, soprattutto, che avrei voluto avere mio nonno un po’ più a lungo con me. Un tempo sufficiente per fare almeno due cose: mostrargli Pantani in tutto il suo splendore e raccontargli le mie imprese in bicicletta.
Perché mio nonno pedalava. Eccome se pedalava.
Era uno di quei ciclisti minuti, come me. I pantaloni ne nascondevano, almeno in parte, le ginocchia secche. La maglia di flanella rigonfia, alla Coppi e Bartali, la gabbia toracica un po’ rachitica. Infine, un grosso paio di occhialoni, che mi sono sempre sembrati più simili a quelli di un aviatore che a quelli di un ciclista, gli copriva gli occhi vispi, piccoli ma furbi. In testa non aveva niente: i caschi all’epoca non andavano di moda.
Aveva i capelli color carota e le guance e il naso coperti di lentiggini. Oggi, mi accorgo che assomiglia tremendamente a mio figlio Fabio.
Si racconta che mio nonno una volta sia andato fino a Roma in bicicletta. Così, senza batter ciglio. Non ho mai capito se fosse una leggenda di famiglia o la verità. Una cosa è certa: sullo Stelvio, sul Pordoi, sul Sella e su tutti i passi che hanno fatto la storia del ciclismo, e che anch’io ho percorso, ci andò veramente.
Del resto, negli anni Trenta, non c’erano in giro tutti quei camion e quegli autoarticolati che incontro invece io ogni domenica in Brianza. A quei tempi potevi andare sereno praticamente ovunque. Anzi, la bicicletta era proprio il mezzo più comodo e più usato dagli italiani, persino dal Duce e dalle mondine. Figuratevi da mio nonno, che il Duce non lo ha mai potuto vedere. In senso metaforico, per quello letterale ci fu costretto: la guerra e i comizi non lo risparmiarono.
Una volta, era il maggio 1935, il suo capo, direttore generale della Banca Commerciale di Milano, sede in piazza della Scala, lo mandò fino a Modena: doveva consegnare dei documenti “Importantissimi” per conto della banca centrale alla sede locale. Mio nonno era un onesto sportellista tutto fare e soprattutto un assatanato ciclista e non si lasciò scappare l’occasione. Come Bartali, infilò i documenti preziosi nella canna del tubo sella e partì alla volta della ridente Emilia. Si sentiva, quella volta, a metà strada tra il dipendente con l’incarico della vita e il bambino in gita scolastica: finalmente poteva pedalare a perdifiato nell’orario di lavoro. Farsi la gamba e magari buttarci dentro anche qualche scatto. Di più: poteva pedalare “per” lavoro. Io oggi farei carte false per un’occasione del genere.
Uscì di casa che era ancora buio. Mia nonna gli aveva lasciato quattro uova crude per dargli forza, un onesto bicchierone di caffelatte bollente e qualche galletta di pane da inzupparci dentro. Lui, in braghe corte e con gli occhialoni calati sul viso, mangiò tutto di gran fretta e si mise in sella. Al collo portava due tubolari di riserva, certo com’era che avrebbe bucato almeno una volta sulle sassose e malmesse strade emiliane. Era pronto per la sua missione.
Attraversò, alle prime luci dell’alba, la Milano addormentata, passò sotto l’arco di Porta Romana, che all’epoca segnava già il confine tra le case e la campagna, e si diresse dritto nella bassa, tra le risaie e i campi di grano. Via via che pedalava, aumentava la velocità. Percorse a perdifiato la Via Emilia a quel tempo sterrata, di cascina in cascina, fermandosi qua e là, attratto dagli effluvi provenienti dalle osterie. Si narra che tornò a casa, nonostante lo sforzo, sovrappeso: aveva fatto sosta un po’ dappertutto, ad assaporare le prelibatezze emiliane. Come resistere? Ma a sera, così almeno dice mia nonna, era di nuovo a casa prima del tramonto. Non so se crederci o meno: sono tanti i chilometri da Milano a Modena. Difficile fare andata e ritorno in un giorno, a meno che tu non sia Bartali davvero.
Insomma, il nonno Bruno andava in bici, e ci andava anche forte. Era uno scalatore puro: leggero, agile, scattante. Un peso piuma. Il vizio è di famiglia. Aveva preferito Coppi a Bartali, mi parlava sempre del Pian dei Resinelli, mitica e dura salita brianzola dalle parti di Lecco, che anni dopo ho scoperto anch’io, e quando si arrabbiava era solito dire: “Guarda bene questa faccia qui, non la rivedrai mai più: perché vado sul passo più alto d’Italia!”. Magari sul passo più alto d’Italia ci andava per davvero, ma poi, per fortuna, tornava.
Durante la guerra, negli anni Quaranta, capitava anche che, mentre era in bici, dovesse smettere di pedalare, quando la sirena segnalava il passaggio dei caccia bombardieri. Bisognava scappare dalla strada, mettersi in salvo come si poteva. Così si riparava dove capitava, insieme alla sua specialissima: in un fosso, dietro un balla di fieno di un campo, nelle cantine di qualche cascina. Non era facile la vita dei ciclisti, non lo è mai.
Quando l’ho conosciuto io, Bruno aveva già smesso di pedalare da tempo perché il cuore non glielo consentiva più. E io, per anni, praticamente fino a oggi, non ho mai saputo davvero quanto e, soprattutto, “come” mio nonno pedalasse. Avevo avuto solo notizie vaghe, generiche, tipo quella della Milano–Modena, intrise di quel sapore annacquato tipico della leggenda familiare. Quelle cose che si tramandano di generazione in generazione un po’ così, superficialmente, senza immaginare che poi magari un giorno un nipotino ormai cresciuto ti andrà a fare il Gavia e il Galibier.
Mi buttavano lì un “una volta è andato in bici fino a Roma” senza specificare in quante tappe, se lungo la costa o attraverso i duri Appennini, con la bici da corsa o con quella da turismo, con le borse o senza, con il cambio o monomarcia, da solo o in gruppo. Quante domande avrei fatto, se solo ne avessi avuta l’occasione!
Eppure non posso farne una colpa a mia mamma e alla nonna. Anch’io ci ho messo del mio: in testa a quei tempi avevo solo il dannato pallone e Kalle Rumenigge, centravanti dell’amata Inter. “Kalle”, all’epoca, faceva la pubblicità ai formaggini Grünland e segnava in mezza rovesciata all’incrocio. E io volevo solo essere come lui e per questo tappezzavo la mia cameretta del suo faccione bavarese. Della bicicletta, insomma, non me ne fregava un bel niente. (…)
Mio nonno, ho scoperto poi, in bicicletta ci viaggiava, oltre che fino a Roma e Modena, anche per altre lunghe tratte “malandrine”. Macinava migliaia di chilometri all’anno, probabilmente, anzi sicuramente, più di quelli che faccio io oggi. In sella alla sua specialissima andava a trovare le sue donne: era sposato con mia nonna, ma per un tacito accordo erano una coppia di quelle che oggi si direbbero “aperte”. E così viaggiava: scalava passi, superava colli, attraversava pianure per andare a trovare le sue belle. Poi, alla fine, però, tornava sempre a casa, da sua moglie. La quale, anche lei, non perdeva tempo, frequentando un ex partigiano, grandissimo giocatore di scala quaranta. Il tutto sotto gli occhi ignari di me undicenne.
A proposito di Gavia e Galibier, chissà quale dei due preferiva? Ogni tanto, penso, avremmo potuto, anzi dovuto, parlarne per ore, fino a litigare. Così capita che oggi, mentre pedalo da solo per la Brianza, mi immagini discussioni virtuali e infinite: lui che tifa per il Gavia, salita italiana e ruspante, io invece, ovviamente, per il francese Galibier, più snob e bohémien. Alla fine non vince nessuno: le motivazioni a sostegno di ciascuna ascesa sono talmente valide che è difficile spuntarla. Ognuno sostiene la sua favorita con dovizia di particolari e argomentazioni assolutamente convincenti: “Vuoi mettere il tratto al 16% dopo la sbarra a otto chilometri da Ponte di Legno? Dove lo trovi sul Galibier un pezzo così duro?”. “Eh già, perché invece i trentaquattro chilometri di salita del Galibier, incluso il Telegraphe?! Dove li metti sul Gavia?” E così avanti all’infinito.
La realtà è che sono due passi bellissimi entrambi, mio nonno lo sapeva bene.
Lo sapeva bene perché lui quei passi se li era conquistati insieme a centinaia d’altri, in serie. Tra il 1930 e il 1940, su strade che ancora non conoscevano l’asfalto. Impervie lingue fatte di sassi e ghiaia: praticamente delle mulattiere aggrappate alla montagna.
Sono rimaste, come prove, delle fotografie. Immagini indelebili, incontrovertibili. Dagherrotipi della memoria involontaria. Lui con la sua specialissima, gli occhialoni, i pantaloni di tre taglie superiori alla sua tanto era piccolo, appoggiato ai cartelli stradali che indicano l’altitudine del passo. Esattamente come quelle che mi faccio fare io oggi, quando porto a termine le mie imprese. La prima volta che ho fatto il Passo Sella, sulle Dolomiti, alla Maratona, ho dovuto fermarmi davanti allo stesso rifugio dove si era fatto fotografare lui settant’anni prima, per farmi fare la stessa foto. Un bisogno impellente.
Il rifugio era lo stesso edificio, un po’ ristrutturato ma chiaramente lo stesso, di quella sua foto del luglio 1935. Impossibile sbagliarsi: tetto spiovente, due finestre con i serramenti bianchi e l’espositore per le cartoline. Al posto del cartello “Cartoline dal Passo Sella” oggi c’è un modernissimo orologio digitale che indica ora, temperatura, pressione barica, tendenza meteo. Per il resto nessuna differenza.
Così, quella volta, ho fermato due concorrenti come me, mi sono messo in posa, nella stessa identica posa in cui si era messo lui con il suo compagno di viaggio, la stessa aria di sfida. E mi sono fatto immortalare.
Già “immortalare” è la parola giusta: quell’immagine sua ora rivive nella mia, e durerà nel tempo.
IMPORTANTE: Tutti i materiali, le riflessioni e le anticipazioni sul mio libro in uscita per Fabbri che pubblico qui, li trovate anche comodamente raccolti nella rubrica CICLOFFICINA.