Chi te lo fa fare.

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Ma chi te lo fa fare? 

E tu, perché non lo fai?

Non si trova risposta a questa domanda. Solo nuove domande che ribaltano la prospettiva. Come pallottole che tornano indietro. E, infondo, è giusto così. Ci ho messo mesi e ho scritto quasi duecento pagine  per capirlo. Ora che sto per consegnare le prime bozze del libro – passerò le vacanze a leggerle e correggerle – la faccenda mi è sin troppo chiara. La risposta non c’è.
Fare fatica in bicicletta, provare dolore non è cosa da tutti. Scegliere per giunta di farlo volontariamente è da pazzi.
Come fare a spiegarlo?
Eppure la sfida che mi ha posto il mio editore è stata proprio questa.
Non credo di averli soddisfatti: forse, e mi piace pensare che sia davvero così, gli ho solo scombinato ulteriormente i piani. La domanda ha generato altre domande, e un rivolo di possibili diverse risposte.
Qui sotto, vi lascio una delle tante contenute nel tomo.
Ci vediamo presto, nel frattempo auguro a tutti un faticoso Natale.
Perché, parafrasando Nietzsche: “Sia maledetto il giorno in cui non si sia fatto fatica almeno una volta”

“I sometimes used to sit on my bike weeping with the pain” (Eddy Merckx)

(…) A dire il vero, credo sia una faccenda del tutto semplice. Le emozioni del corpo si trasmettono velocemente alla mente, che uno abbia cinque o settant’anni: una sensazione fisica molto forte è in grado di generare benessere a trecentosessanta gradi in poco tempo. Spesso sento dire che tutto nasce dalla mente, che tutto è una questione “di testa”, che tutto è psicologico. E se invece fosse il contrario? Tre ore in mezzo ai boschi a faticare e sudare possono rendere felici come nemmeno tre sedute dallo psicoanalista.

A me pare che, in realtà, tutto, o quasi, nasca dalle sensazioni del corpo: in un attimo possiamo spazzare via mille pensieri negativi, mettere a tacere preoccupazioni fastidiose, alleviare tensioni, semplicemente grazie a un’attività fisica, soprattutto se faticosa e intesa. Quante volte, quando siete nervosi, vi siete sentiti dire: “Esci, sfogati, fai una bella corsa all’aria aperta!”. Non dura per sempre, è ovvio, sarebbe troppo facile e troppo bello. Però per un po’ dura. E in fondo, per quell’un po’ siamo disposti, non dico a tutto, ma a tanto. Una volta che si è scoperta questa formula magica, questo strano elisir di lunga vita, siamo pronti a fare sacrifici che non pensavamo: alzarci all’alba, anche di domenica, e appena in piedi, metterci a correre, nuotare, pedalare.

Più tempo passiamo seduti, davanti a un pc, o chiusi in claustrofobiche sale riunioni, più abbiamo bisogno di riappropriarci di questa dimensione naturale, oserei dire animalesca. Vogliamo ritrovare l’intimo contatto con il nostro corpo e riscoprirne i ritmi dimenticati, quasi fosse un macchinario che poi si addormenta durante la settimana. Vogliamo sentire il cuore che pulsa, il respiro farsi più affannoso mentre lo sforzo aumenta, le gocce di sudore imperlarci la fronte, il vento scompigliarci i capelli. In una parola, vogliamo sentirci ciò che dopo tutto siamo: animali.

E se, a tutto questo, ci aggiungiamo il rapporto con la natura, otteniamo il massimo. La natura e il corpo: un binomio ancestrale, che genera benessere come nemmeno la più potente delle droghe.

Lo racconta benissimo Into the wild. È la storia, vera, di un giovane americano che decide di abbandonare tutto – famiglia, affetti, prospettive, beni di consumo, carte di credito – per gettarsi nelle braccia di una vita solitaria in quel dell’Alaska. Solo, senza niente. Lui, il suo corpo, e la natura. Mentre guardavo il film (che è tratto a sua volta dal libro di Jon Krakauer, Nelle terre estreme), ho avuto l’impressione netta che quella storia parlasse anche di me. Io non rifiuto la civiltà, non taglio in due con la forbice la carta di credito, non scapperei mai a vivere in Alaska in mezzo ai grizzly. Però, se ci penso bene, anche io ogni domenica in realtà lo faccio. Mi alzo alle sei e vado un po’ “into the wild”. Poi ritorno.

Ho bisogno di spegnere il telefonino, il computer, le connessioni, anche quelle con i famigliari e le persone più care. Sento il bisogno di ricaricare le pile, e di farlo in maniera selvaggia, ammazzandomi di fatica. Per qualche ora, anch’io torno in una dimensione primordiale, completamente fisica e di puro contatto con la natura. Fatica, silenzio e paesaggi. È il mio modo di ritrovare la pace con il mondo e l’equilibrio con me stesso. Quando torno, e le riattivo, mi pare che tutte le mie “connessioni” abbiano subito un prezioso upload. Di venti giga.

Certe bellezze naturali, le puoi apprezzare davvero solo se ti fai corpo nudo, senza bisogno di nient’altro: né motore, né tecnologie, niente di superfluo. Ti devi spogliare di tutto quello che hai oltre al corpo, testa in primis. La mente verrà poi, di conseguenza. Ci sono luoghi in cui vale la pena essere semplicemente fisici, con tutto ciò che questo comporta: fatica, mal di gambe, cuore che scoppia e quel sentirsi dire “chi te lo fa fare?”. Anzi, è proprio l’insieme quel che si cerca, compreso il dolore. Il dolore fisico che si prova quando si pedala, soprattutto in salita, è una componente essenziale del piacere che la bicicletta regala. Bisogna imparare a sopportarlo, a conviverci, fino a sublimarlo. Se non si è disposti ad accettarlo, non si amerà la bicicletta. Non conviene nemmeno iniziare. Del resto, non è obbligatorio.

Quando vado in salita, in mezzo a una montagna, ho imparato che sono i primi chilometri quelli più critici, quelli dove soffro di più. Anche dopo anni di allenamenti e salite massacranti, il meccanismo è sempre lo stesso: appena partito, mi assale puntualmente la voglia di abbandonare tutto e tornare indietro. Gettare la bicicletta alle ortiche. Se invece proseguo, succede sempre qualcosa, come una magia. In gergo si dice “trovare il proprio passo”, ovvero un ritmo di pedalata giusto, che ci consenta di sopportare la fatica e darle senso. È questo che intendo, in sostanza, per “sublimare” il dolore. E quando si trova questa sorta di equilibrio tra il dolore che si prova e la fatica che si fa per sopportarlo, si potrebbe rimanerci sopra per ore.  Faticare diventa piacevole. E irrinunciabile.

Solo in questo modo, si arriva ad apprezzare davvero il senso di alcune salite durissime o lunghissime. Quando, ad esempio, ho fatto per la prima volta il Passo dello Stelvio, all’inizio ero al colmo della fatica, poi a un tratto, dopo qualche chilometro, ho trovato il giusto ritmo, quello adatto a me. E proprio in quel momento mi sono accorto che era come se i ghiacciai, le rocce e il paesaggio che, dove finisce la vegetazione, si faceva via via più lunare, mi dicessero che avevo fatto bene, che non avevo altra scelta per parlare con loro. Questa sensazione precisa mi ha donato un piacere senza pari. Un piacere che fa dimenticare in fretta il dolore provato all’inizio, al punto da volerlo riprovare al più presto.

Poi, certo, si imbocca sempre la discesa. E ci si ri-immette bruscamente nella civiltà: traffico, clacson, bar, ristoranti. Come noi la domenica.

Anche questa volta sono tornato a casa felice. Mezzogiorno in punto, in perfetta tabella di marcia. Suono il citofono, fradicio di sudore e di pioggia mi appoggio al portone: sulla via del ritorno dalla Brianza abbiamo incrociato un temporale monsonico da paura, uno di quelli che segnano definitivamente l’arrivo dell’autunno. Per fortuna eravamo a pochi chilometri da Milano. Del resto siamo già a metà ottobre,  c’era da aspettarselo. Con la coda dell’occhio mi compiaccio a contemplare gli schizzi di fango depositatisi sul cannotto reggisella in carbonio della mia bella: oggi l’ho maltrattata a dovere. Come è bella! Anche così sporca e vissuta mi piace da morire. A volte passo anche dieci o quindici minuti così a guardarla, seduto in cantina, dopo le fatiche dell’uscita, esattamente come facevo con le scarpe da calcio dopo la partita con gli amici: contemplavo compiaciuto i segni della battaglia, prima di tuffarmi nella schiuma ovattata della vasca. Mentre il portone mi viene aperto, incrocio la signora del quarto piano che, come tutte le signore del quarto piano, è anziana e ha i bigodini rifatti di fresco. Ieri è stata dal parrucchiere e ha quel curioso alone azzurrato sulla chioma che hanno sempre le signore anziane quando tornano dal parrucchiere. Oggi, con tutta probabilità, l’hanno invitata a pranzo i figli. La sua messa. Mi guarda incerta, spaventata: così vestito non mi riconosce. Mi fa quasi tenerezza: un brutto ciclista cattivo e lercio di fango nella sua domenica da confetto. Accelera il passo improvvisamente e non mi tiene la porta, scuotendo la testa. Sorrido. Devo avere proprio un brutto aspetto, oggi sul Colle Brianza l’avvocato mi ha tirato il collo. La mia faccia sarà ancora paonazza per quello strappo e qualche nuvola di fumo mi sta forse uscendo da sopra il casco. Sì, non sono proprio bellissimo da vedere, lo specchio dell’ascensore me lo rivela impietosamente mentre sgocciolo sul pavimento. Mi tolgo i copriscarpe in neoprene anti-pioggia e poi le scarpe, prima di entrare in casa: abbiamo appena traslocato, il parquet è nuovo di zecca e difficile da tenere pulito. Francesca mi apre e scoppia in una risata così dolcemente infantile che non posso fare a meno di ridere anch’io. Ne sono certo: questi cento chilometri nella tundra brianzola hanno fatto bene a tutti e due. (…)