Timmelsjoch reloaded.

Questa settimana vi lascio con una chicca. Uno dei passaggi del mio libro che mi sono più cari. È lungo: ve lo dico subito. Prendetevi il tempo che vi serve con calma:  mi piacerebbe davvero che lo leggeste. Perché c’è dentro la salita (e il conesguente passo) che ad oggi mi ha più colpito e affascinato. Mettendo in crisi la mia personale classifica che vedeva al primo posto il Galibier, al secondo il Gavia al terzo lo Stelvio. È un luogo incantato: mentre ne scrivevo, mi sono accorto che avrei potuto andare avanti per pagine e pagine. Alla fine ne sarebbe tranquillamente potuto venire fuori un libro nel libro, dunque meglio fermarsi. Quando avete finito di leggerlo, solo a quel punto, vi consiglio di pigiare “play” sul tasto quassopra. Non prima.
Ah, dimenticavo un piccolo particolare: quella salita io mica l’ho fatta. Ma questa è un’altra storia: per leggerla, dovrete aspettare il libro. 

 
“No… dovremo mica salire lassù’!?’” Chiede il babbo, indicando il versante opposto della vallata, alla mia sinistra. Il versante cioè di fronte a quello su cui stiamo procedendo noi.

No, penso: quella è un’altra strada che porta da tutt’altra parte. Sull’altro versante della valle. Se noi siamo di qua, possiamo mica andare di là.

Però, ora che la guardo bene, quella strada sale molto in alto: che altro passo sopra i duemila metri ci può mai essere da queste parti?

Nessuno. Panico.

Il babbo riprende, questa volta con più convinzione: “Eh già…vuoi vedere che… massì è proprio così: dobbiamo andare lassù!”

Mio papà si spaventa difficilmente e direi che nemmeno questa volta si è scomposto, tuttavia un certo timore, nella sua esclamazione stupita, l’ho avvertito. Un impercettibile, per gli altri ma non per me, tremito nella voce.

E in effetti, superata una curva, davanti a noi mi accorgo che la strada piega decisa e improvvisa a sinistra. Si immette in quell’altra che saliva di fianco a noi e che vedevo dal finestrino con la coda dell’occhio. Quella che indicava lui. Dobbiamo salire di lì: è evidente.

Cesso di domandarmi se ce la farò domenica con la bici, e inizio a chiedermi se ce la faremo adesso con l’auto.

Il Rombo penso sia il primo passo in assoluto che vedo salire lungo due montagne diverse. Mi spiego meglio: la strada comincia inerpicandosi su una prima montagna, lasciandoti costantemente roccia, boschi e terra alla tua destra. Pensi quindi, ragionevolmente, che scollinerai la montagna che sta sulla tua destra: quella che ti ha accompagnato dall’inizio.

Poi improvvisamente, invece, scopri che la tua strada sarà un’altra.

La carreggiata fa una curva brusca, inaspettata e abbandona quella montagna su cui stava salendo. Come avesse cambiato improvvisamente idea. E piega a sinistra, per arrampicarsi su un’altra montagna, quella che fino a un minuto fa tu vedevi dall’altra parte, alla tua sinistra: l’altro versante della valle. E come fa? Semplice: nell’unico punto possibile in cui i due versanti s’incontrano, chiudendo la valle. Un passaggio ardito, praticamente impossibile, eppure maledettamente reale. Costruito da ingegneri esperti e audaci. Ma anche, c’è da ammetterlo, tremendamente sadici.

Il guaio è che tu stavi salendo, bello tranquillo, la tua montagna, notando con la coda dell’occhio, alla tua sinistra, un’altra strada ripidissima, con tornanti a gomito mozzafiato che saliva molto più in alto. E solo dopo questa curva a gomito realizzi che quella che vedevi con la coda dell’occhio non era “un’altra” strada.

No: è proprio la tua. Sul Rombo no c’è scampo. Sul Rombo si sale su due volte, non una sola.

Subito dopo lo stupore, veniamo però catturati dalla bellezza estrema e sturm und drang del paesaggio. Devo scalare in prima…
Ha smesso di piovere e un pallido sole filtra tra le nubi basse e grasse come panetti di burro che penzolano sopra di noi.

Gli ultimi tornanti che portano verso il passo sono i più ripidi: del tutto simili a quelli, che conducono sullo Stelvio dalla Valle di Trafoi. Una muraglia che sale a zigzag lungo la parete della montagna: finché questa non decide di finire e lascia il posto al cielo. Là è posto il passo del Rombo o Timmelsjoch: 2.505 metri sul livello del mare, la “Cima Coppi” della Ötztaler Radmarathon. E, probabilmente, di tutta la mia stagione ciclistica.

Prima di raggiungerlo, a mo’ di porta d’ingresso o di cancello finale verso la gloria eterna, c’è però una galleria. Un lungo e stretto tunnel con un portone d’ingresso: ogni sera alle otto in punto, cascasse il mondo, quel portone lo chiudono.

Mario, che l’ Ötztaler l’ha già fatta l’anno scorso, quella volta è arrivato qui alle 20:02 e l’ha trovato drammaticamente chiuso. Non aveva scelta: dovette far dietro front con la sua Panda 4×4, noleggiata all’aeroporto di Orio al Serio, e tornar a valle, verso San Leonardo. Quella notte pernottò in una malandata pensione nel primo paesino incontrato: Schonau, tre case in croce.  Il giorno dopo, raggiunse Sölden con il terrore dipinto negli occhi per quello che aveva visto salendo.

Quella galleria esercita in me, mentre la attraverso in auto, un fascino incredibile. Farei fatica a metterla in classifica con quella del Gavia o quelle dopo il Lautaret alla Marmotte.

Bene, credo proprio che quando domenica ci passerò (se ci passerò: non è affatto scontato) un brivido mi percorrerà l’intera epidermide. Dal mignolo del piede sinistro all’ultimo lembo destro della nuca. Già perché, usciti da quel tunnel, come per magia, ci si trova in paradiso: in cima al passo Rombo. In altre parole: la fine dell’agonia. Il raggiungimento del “traum”: il sogno dei sogni. Da lì in poi, davanti al ciclista si apre solo la dolce serpentina di tornanti che scende verso Sölden: verso l’arrivo. La più bella e desiderata di sempre. Penso che questa domenica diventerà anche la discesa più bella di tutta la mia vita.

In tutto sono venticinque chilometri di pura goduria. Sì, è vero, c’è un ultimo “dentino”: un brevissimo pezzo di salita ancora, quello che serve per raggiungere la dogana austriaca. Ma sono due chilometri al massimo. E, detto tra noi, arrivati a questo punto, due chilometri in più o due chilometri in meno che volete che cambi? Un’ultima minima fatica e poi la gloria. La affronterò con il sorriso sulle labbra.

Con il babbo ci fermiamo in cima al Timmesljoch. Scendiamo dall’auto: voglio vederlo da vicino questo monastero pagano per ciclisti.

Siamo in mezzo alle nuvole: fa molto freddo, più di quello che immaginassi. Non ci sono ciclisti, solo qualche motociclista e un paio di turisti inglesi che si stanno facendo delle foto. Siamo pochi gradi sopra lo zero. Non oso immaginare domenica, se ci sarà brutto tempo, cosa possa succedere quassù verso le quattro del pomeriggio. A un tratto mi viene in mente la banana di Marco Saligari sul Gavia e il tovagliolo bianco che mi mise sotto gli occhi per farmi capire cosa si vede in bici quando nevica. Mi agguanta la paura delle paure: quella di non farcela, di entrare nel panico e di andare incontro a una brutta avventura. Di quelle in cui non vorresti mai trovarti. E in cui, quando ci sei dentro, purtroppo però, ormai è troppo tardi per tornare indietro. Per riavvolgere il nastro e dire: “no, scherzavo, ci avrete mica creduto?”.

Già, perché se a valle domenica pioverà, come dicono tutti, è praticamente certo che qui nevicherà. E chissà, magari non verranno neanche distribuite banane: l’ultimo ristoro è a Schoanu, giù in basso, non qui in cima.

Guardo l’orologio: sono già le quattro. Alle cinque ho appuntamento con Mario all’arena del ghiaccio di Sölden: la “Freizeit Arena”, dove tradizionalmente si ritira il pacco gara dell’ Ötztaler Radmarathon. Dobbiamo affrettarci.

Il pacco gara è una borsa di nailon che contiene diversi oggetti: alcuni indispensabili, altri totalmente futili. Il più importante è il “chip”: un sensore che registra il tempo del concorrente durante la gara, e che segnala il suo passaggio in tutti i punti di rilevamento disseminati lungo il percorso. Spesso è un semplice laccetto che si lega con una chiusura in velcro alla caviglia del ciclista, oppure è un piccolo pezzo di plastica che si aggancia al mozzo della ruota anteriore della bicicletta. Stavolta è inglobato nel numero di gara che va posizionato sul manubrio della bici.

Nel pacco, oltre al chip, c’è anche un “dorsalino”: ovverosia il pettorale con il numero di gara da attaccare sulla maglia, dietro la schiena, con quattro spille da balia.  Ogni volta che a una granfondo faccio questa operazione, ormai divenuta familiare, mi tremano sempre un po’ le mani e spesso finisco per disseminare di buchi come un groviera la divisa.

Nel pacco gara solitamente è contenuta anche la maglia ufficiale della manifestazione: un souvenir, un ricordo, da portare con orgoglio tutto l’anno.

Stavolta no.

Quella maglia all’ Ötztaler te la devi sudare. Con le tue gambe e senza aiuti: te la daranno solo se arrivi fino in fondo. Non prima.

All’ Ötztaler è cioè rituale irrevocabile che ogni concorrente ritiri la sua maglia ufficiale solo e soltanto dopo essere arrivato. Del resto, su quella maglia, c’è scritto “Finisher”.

Non si può essere “Finisher” se non si è neanche partiti.

Avvolto da questi torvi pensieri, mi rabbuio. Risalgo in auto sbattendo con forza la portiera. Papà sta scattando foto con il telefonino, ma non appena si accorge che mi sono rimesso in macchina preoccupato, mi raggiunge di gran fretta. Quasi sentisse il bisogno di accudirmi e rassicurarmi.

Chiuso nel caldo dell’abitacolo, accendo la radio per distrarmi: ma siamo troppo in alto: non si prende nessuna stazione. Né italiana né austriaca. Adesso mi andrebbe bene anche la “Cavalcata delle Valchirie”  o il “Requiem” di Mozart.

Giro le chiavi, accendo il motore e inizio a guidare lungo i venticinque lunghi chilometri che ci condurranno a Sölden. Non parlo.

Mano mano che scendiamo, lungo i tornanti del Timmelsjoch, le nuvole si diradano: il paesaggio si apre ai nostri occhi. È una bellissima e larghissima lingua d’asfalto in mezzo a due montagne quella che abbiamo davanti. Liscia come l’olio: salendo dal versante italiano l’asfalto era invece molto più rovinato e pieno di buche. Qui è perfetto: ideale per pieghe da urlo in bicicletta.

Poco più a valle, comincio a scorgere manciate di case, piccoli paesini: la civiltà che ritorna dopo lo sturm und drang.

A un tratto ci troviamo a percorrere un rettilineo lungo almeno due chilometri. Una rarità in discesa da un passo. La strada è una tavola da biliardo inclinata, che passa in mezzo alle rocce. Mi ricorda un po’ Plan Lachat, salendo il Galibier.
Devo tenere leggermente premuto il piede sul freno o la macchina salirà di giri all’inverosimile, surriscaldando il motore. Qui, penso, domenica, se solo ci fossero condizioni meteo ottimali, mi potrei anche divertire. Dannazione.

Mi lascerei andare alla pura legge di gravità: in presa bassa, piegato verso valle, muovendo il culo come m’hanno insegnato, per dirigere la bicicletta nelle curve, disegnando traiettorie perfette. Come un surfista sulle onde dell’Oceano. Godendomi il vento freddo nei capelli e l’aria frizzante della vittoria. Anzi, sapete che vi dico: quasi quasi, data la felicità per essere arrivato sin qui, mi azzarderei addirittura a mettere il culo in fuori. Come Pantani.

Mi hanno detto che nella discesa dal Timmelsjoch, proprio in questo punto, si toccano anche gli 80 all’ora.

E infatti qui, lungo questo “drittone”, anche se in salita e non discesa, la Garmin, azienda leader nella produzione di ciclo-computer satellitari, ha girato il suo ultimo spot. Divenuto ben presto un piccolo video “cult” tra i ciclsiti: uno dei più visualizzati, condivisi e cliccati del web.

Quando lo vidi la prima volta, quello spot, subito mi chiesi di quale strada meravigliosa si trattasse. Non sapevo che era il Timmelsjoch, il passo Rombo, versante austriaco. Quel video è stato chiaramente girato qui in primavera: diciamo, a occhio e croce, tra aprile e maggio. Lo si capisce dalla quantità di neve ancora presente ai bordi della carreggiata. La storia di quei sessanta secondi, o poco più, racconta di un ciclista che sale immaginando di sfidare un suo alter ego inesistente: una specie di fantasma virtuale che sale con lui, mettendogli fiato sul collo. Metafora della prova contro se stessi.

Il ciclista sale sempre più veloce, finché, a un tratto, è costretto a fermarsi. Come mio nonno a Macugnaga: ben prima della vetta, ha trovato la strada interrotta per una slavina. L’impresa si deve interrompere qui. Attorno a lui è tutto bianco, come il tovagliolo di Saligari. Tutto, tranne il cielo: di un azzurro zaffiro intenso. Si sente solo il rumore del vento e del suo fiato. Nient’altro.

In quello spot, meraviglioso, il ciclista si ferma qui: getta la bici su un cumulo di neve fresca, preso dallo sconforto, e si lascia cadere stravolto. Ha il fiatone per la fatica, immensa, appena fatta: è salito “a tutta”, non si è risparmiato. Doveva vincere contro il suo alter ego.

Eppure, dopo l’iniziale momento di delusione per non aver potuto portare a termine la missione, si ferma. Si ferma e guarda. Contempla il paesaggio e le nuvole incantate del Timmelsjoch. Questo passo che mai avrei immaginato di incontrare un giorno nella mia vita. Non perde l’occasione di stupirsi di fronte a quella bellezza rara. Quella dell’ultima gola che s’inerpica fino alla fine della montagna: dove osano solo gli eroi e, di tanto in tanto, magari, anche qualche mortale.