Me & Myself

La bici nei prossimi mesi
Il ciclismo, nei prossimi mesi, dovrà giocoforza riscoprire la sua anima solitaria e più introspettiva. Sarà costretto a perdere quella dimensione invece collettiva e di “festa” che tanto faticosamente si era guadagnato con le unghie e con i denti negli ultimi anni, anche grazie a personaggi d’impatto come Peter Sagan.
Non parlo solo di ciclismo agonistico e di gare, anche se quello è innegabilmente il più compromesso al momento: quest’anno niente granfondo e una stagione pro che ha del surreale, con Giro e Classiche in contemporanea. Ciò che potrebbe scomparire, almeno per lungo tempo, è, a mio avviso, soprattutto un’altra cosa, apparentemente più preziosa. L’idea di raduno e di celebrazione collettiva e sociale che il ciclismo ha imparato ad essere negli ultimi dieci anni. Niente tifosi per le strade quando (e se) passerà il Giro. O comunque pochi, contingentati, magari con sguardi di sospetto verso il vicino, poca voglia di fare festa e molta ansia di controllare. Ma anche niente Nove Colli, niente Maratona dles Dolomites, niente Eroica e Ronde van Vlaanderen per amatori. I grandi raduni – già la parola  stessa “raduno” pare anacronistica – da dimenticare. Quale voglia di “radunarsi”? Se c’è una cosa da cui vogliamo tutti scappare ora è proprio la moltitudine. E se ieri come le api cercavamo un gruppone lanciato a tutta sull’asfalto cotto dal sole, per provare l’ebbrezza dei 45 all’ora, oggi lo evitiamo accuratamente.
Il ciclismo sta semplicemente tornando alle sue origini più povere e romantiche, quelle di disciplina individuale e un po’ crepuscolare, ma anche vagamente tristanzuola, o c’è dell’altro?

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Due cose belle
C’è evidentemente dell’altro. Pur mantenendo ferma l’idea della dimensione solitaria futura, inevitabile, credo che il ciclismo non possa più tornare quello eroico di Coppi e Bartali e della borraccia passata. La bici è come acqua e in ultima analisi come tutte le cose: scorre, va avanti per i fatti suoi, non torna indietro. Dunque la “nuova solitudine” potrà mai essere quella di prima. Perché semplicemente l’ha superata, è andato oltre, e quelle condizioni non sono più quelle di oggi. E allora, che cosa sarà, il ciclismo di domani (che poi è già di oggi)?
Sarà gioia e voglia di condivisione, esattamente come prima. Ma in un modo completamente diverso e inaspettato. Questo il suo bello.
Parto da due cose che mi hanno particolarmente colpito in questi lunghi mesi di astinenza forzata. Due video.
Una è la mini-serie di Jovanotti sul suo viaggio in bici tra Cile e Argentina (ne ho parlato lungamente qui). L’altra è più recente: si chiama Into The Rift (lo vedete qui sopra). Ed è una chicca lanciata in anteprima mondiale su YouTube lo scorso 20 maggio dal brand italiano PEdALED. Azienda che produce abbigliamento e accessori per ciclisti viaggiatori, scegliendo strade meno battute e più interessanti.

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All’inizio ero confuso
Quando è stato lanciato online Into the Rift, si era già tornati a pedalare da un paio di settimane abbondanti: non so voi, ma io il 4 maggio ero già in sella di primo mattino. Ma si era tornati a pedalare da soli. Questo il punto. Tutto era cambiato.
Forse un po’ smarriti, forse nostalgici di quelle belle uscite di squadra, dove si scattava, si giocava, ci si pigliava in giro, ci si facevano tanti selfie con i compagni, cose che noi amatori conosciamo bene.
Ci ho pensato a lungo prima di scrivere questo pezzo.
All’inizio ero confuso, mi pareva di essere in palese contraddizione con quello che avevo appena sostenuto in Generazione Peter Sagan, il mio ultimo libro per 66thand2nd. Quel lavoro è tutto concentrato su una rinascita ciclistica, dove dimensione sociale e di divertimento puro  – passatemi la parola, per quanto abusata – “di movida”  diventano le parole d’ordine della nuova rivoluzione a pedali. E adesso? Ora vengo a dire che invece è tutto il contrario, che è meglio da soli che in compagnia?
Esatto. O quasi.

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Il piacere della contraddizione
Ci ho rimuginato e pedalato sopra, ho digerito, e quindi sono tornato a bomba sul dubbio scomodo che mi attanagliava: il ciclismo è divertimento (altrimenti perché praticarlo?). Ma lo è in senso totale. Divertirsi (e pedalare) vuol dire anzitutto stare bene con se stessi. Provare gioia, come dei bambini. Come fa Sagan quando fa downhill.
In un certo senso significa, estremizzando, fare sesso con la propria bici. Secondo lo psicanalista Donald Winnicott il gioco è una prima forma di esperienza sessuale. E in bici si gioca.
Imparare a lasciarsi andare, disinibirsi,  come dicevano i romani insannire, sono emozioni che presuppongono necessariamente una dimensione collettiva. Si può beneficiarne in gruppo, come da soli. L’emozione è la stessa.
Il ciclismo possiede, credo, come forse solo il surf e la vela, una dimensione dionisiaca e irrazionale intrinseche che non si possono perdere dall’oggi al domani. Ciò che dà piacere, che porta all’ebbrezza, nella bicicletta, è la bicicletta stessa. Non ciò o chi le sta attorno. Talvolta, mi sono accorto, persino il Naviglio della Martesana mi pare il Tennessee quando ci vado in bici.
Questa gioia interiore si celebra in gruppo alla Nove Colli, quando alle 6 del mattino prendi posizione assieme a migliaia di altri come te, nella tua griglia. Ma anche, e oggi soprattutto, in perfetta solitudine, pedalando con i tuoi pensieri, sulle Ande o sui sentieri super-sterrati dell’Atlante.
Allo stesso modo, è possibile soffrire, e dunque non divertirsi, sia da soli che in gruppo. Quando ad esempio lo stress dello stare attenti alle rotonde, alla borraccia che cade a quello davanti, ai tombini non segnalati da chi precede, prendono il sopravvento sulla dimensione ludica.
Ora tutto è diventato improvvisamente chiaro: tra piacere della solitudine e gioco collettivo non può esserci alcuna contraddizione. E credo che Into the Rift lo spieghi benissimo.

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#Prosolitude
È infatti proprio questo – il piacere dello stare da soli in bici – il tema di fondo di questo magnifico cortometraggio (o lungo video YouTube, se preferite). 40 minuti, una durata inusuale per il web, ma troppo corta per la tv. In questo suo essere a metà strada tra documentario e mini-film si trova la chiave del suo successo. Il modo perfetto per raccontare una corsa – già, perché si tratta di una gara – assolutamente pazza ed estrema, dove la solitudine diventa, se possibile, collettiva. Stiamo parlando della prima edizione della Atlas Mountain Race: 1200 km e 25000 metri di dislivello nel cuore del Marocco, tra distese di sassi e pietre rosse e accampamenti Berberi, dove sono rare le oasi con acqua potabile per riempire la borraccia, ma tocca arrangiarsi. L’Atlas Mountain Race è una corsa da fare in assoluta autosufficienza, guai meccanici inclusi: se rompi un raggio te lo devi riparare tu. Si può partecipare da soli o a coppie. Donne e uomini. Non c’è un vero e proprio tracciato prestabilito ma solo dei check-point imprescindibili, dove farsi timbrare il cartoncino del brevetto. Il tempo massimo per portare a termine l’impresa è 8 giorni. Se si vuole pensare di “vincere”, va da sé, però, tocca non dormire praticamente mai.”8 giorni a pedalare, un’ora e mezzo di sonno” dice uno dei protagonisti mentre viene filmato, in piena notte, in preda a una crisi e forse ad allucinazioni. Due bottiglie d’acqua da litro e mezzo ciascuna, senza respirare, beve un altro concorrente appena giunto a un ristoro. Cose che nemmeno John Belushi in Animal House con una bottiglia di Jack Daniels.
Ma la cosa che colpisce più di tutte di quesa supposta “sofferenza” è che nessuno sembra in realtà soffrire. Mi si perdoni il gioco di parole. Tutti anzi, appena intervistati, scoppiano a ridere. Quasi in preda alla celebre ridarola da quattordicenne. Ridono, brindano, non sono mai davvero sole o soli. O, meglio, lo sono – e completamente – lungo i sentieri rocciosi dell’Atlante, ma poi, giunti al check-point, mentre si abboffano di pollo piccane e verdure, smettono di esserlo
Spesso perché sono davvero in compagnia: si incontrano diversi concorrenti nei punti di controllo, ci si scambiano impressioni, consigli, emozioni. Ma altrettante volte lo sono semplicemente “mentalmente”. In compagnia cioè dei propri stati d’animo, delle proprie emozioni tumultuose, che travolgerebbero chiunque dopo 12 ore in sella nel deserto.

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Easy Rider
Un piacere totale li pervade. Si vede da come parlano, dagli occhi che hanno quando vengono intervistati.
E, a proposito di occhi, godetevi le immagini dei paesaggi. Stupende. Avevo già avuto modo di apprezzare la qualità della fotografia, sempre promossa da PEdALED, in Wild Horses. Altro docu-trip sulla Silk Road Mountain Race Altrettanto estrema e “unsupported” race lungo quella che un tempo era la Via della seta. Un’idea già di per sé suggestiva. Anche lì si celebrava il piacere assoluto della solitudine. Tra radure improbabili e montagne ripidissime e sconosciute, in quello stato, prima di tutto mentale, che è il Kyrgyzstan.
Ma anche in quel caso, le immagini più belle erano quelle dei sorrisi, della commozione, del traboccare di felicità dei ciclisti all’arrivo. Una sorta di estasi catartica che viene difficile interpretare, comunque la si pensi, come individuale. Sembrano bimbi scesi dall’ottovolante. Tutti, donne e uomini: ognuno partecipa alla gioia dell’altro.
Un altro aspetto estremamente interessante del ciclista viaggiatore è che molte sono donne. Molte di più che a una granfondo o in un’uscita tra amici.
Donne agguerrite, propense alla fatica e determinate ad arrivare in fondo a qualunque condizione. Lo è la cicloviaggiatrice olandese incontrata da Jovanotti sulle Ande che sta girando il mondo da mesi in solitaria. Lo sono le concorrenti intrepide e bellissime dell’Atlas Mountain Race. La cosa più bella, da questo punto di vista, è Il pianto a dirotto che dura minuti interi, di Andrea Seiermann. Concorrente numero 7 (non ci sono dorsalini qui, solo cappellini con il proprio numero di gara). Una scena eloquente e simbolica, che ho voluto rivedere più volte. Perché credo sia la chiave, la password corretta per loggarsi nel nuovo futuro a pedali.

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Happiness shared
La capacità di stare da soli, e gioirne (e la gioia è sempre condivisa), credo siano un bagaglio fondamentale per il ciclista del futuro.
Ce lo ha spiegato bene Jovanotti nel suo “Non voglio cambiare pianeta”: è mai stato realmente da solo, Lorenzo, in quel viaggio? Ce lo ricordano i concorrenti della Atlas Mountain Race in Into The Dirt. Dentro querelle avventure individuali c’è moltissimo di condiviso. Una lunga tradizione epica: ci sono Kerouac, Chatwin, Pirsig, Sepulveda, Dylan e Springsteen, ma anche Peter Fonda. C’è Into the Wild  ma anche Marrakesh Express. Un lungo road movie in bicicletta, che apre, credo, una nuova via ciclistica.
La strada è libera, gratis, outside is free. La bici non richiede spese o quasi.
Buona strada, ovunque andiate non sarete mai soli.

 

MORE INFO
“Into The Rift”: a film by Brady Laurence
“Atlas Mountain Race”: an idea by Nelson Trees
Images: courtesy by PEdALED