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Stazioni di Servizio
Conosco Jacopo un finesettimana di luglio sul lago di Garda, dove entrambi abbiamo casa.
Di lui so poco: che è il brand manager di PedALED, uno dei marchi più interessanti nel panorama abbigliamento bici, ma soprattutto che ha partecipato a due Transcontinental Race. Una corsa folle di ultradistanza, senza nessun tipo di supporto, che attraversa tutta l’Europa. Ogni anno il percorso cambia: l’edizione numero 8, posposta al 2021 per ovvie ragioni, partirà da Brest nel nord della Francia. La Transcontinental o TRC passa per Francia, Belgio, Svizzera, Italia, Slovenia, Croazia, Bosnia, Bulgaria, Grecia (le edizioni 2017 e 2018 arrivavano suggestivamente alle Meteore) talvolta Turchia (diversi gli arrivi a Istanbul). La TRC è nata nel 2013 da un’idea folle ma geniale di Michael Hall. Un ultracycler che è purtroppo è caduto vittima della sua stessa passione. Travolto in circostanze misteriose, forse da un camion, mentre stava partecipando ad un altra corsa di ultra distanza, l’australiana Indian Pacific Wheel Race. 5500 chilometri. L’autista di quel maledetto proiettile mortale non è mai stato trovato.
Tornando ad uscite più umane, Jacopo ed io ci siamo dati appuntamento alle 8 alla stazione di servizio di Gargnano. E ben presto mi accorgo che, questo della stazione di servizio, sarà il filo conduttore di tutta la nostra uscita-chiacchierata. 100 chilometri e 2200 metri di dislivello, bazzecole per un ultracycler.
Jacopo esordisce subito dicendomi che è abituato a pedalare da solo, sono anni – prosegue – che non fa un’uscita in compagnia di qualcuno. Ama pedalare senza cardio, raramente monta il computerino (ma stavolta ce l’ha) e non si porta dietro un bel nulla da mangiare. Si nutre come e dove capita, lungo il percorso, assaggiando cibi di mezza Europa. Kebab di pollo, brioche confezionate, panini, piatti di pasta improvvisati: quello che la strada gli passa. E questo fa parte del suo modo anarchico di muoversi in bicicletta. Già, perché il suo non è semplicemente un pedalare, o gareggiare. C’è qualcosa di più: un modo nomade e affascinante di raggiungere posti in capo a mondi diversi. Adora la notte: il momento migliore per pedalare, mi dice. Ma occhio ai cani randagi: sui Balcani, durante la Transcontinental, se ne incontrano tantissimi! Intere mute che balzano fuori all’improvviso dalla boscaglia, appena cala il sole, come vampiri, possono essere molto aggressivi. Tocca saperli affrontare nel modo migliore e quindi farseli amici. I racconti dei novizi alla Transcontinental – aggiunge – sono quasi tutti racconti di cani.
Mi viene in mente Marco Pantani: le sue ultime scorribande in bici, in Calcidica, in vacanza con la famiglia, erano piene zeppe di cani. Il Pirata diceva che ciò che più lo affascinava di quelle strade erano le pedalate al tramonto, quando cominciavano a uscire i cani: decine e decine di randagi che lo seguivano per chilometri a perdifiato. Sapeva come prenderli, lui, se li era fatti amici. In fondo, è facile credere che in quel periodo si sentisse tremendamente simile a loro.
Ma torniamo al cibo e alle stazioni di servizio, soprattutto.
Jacopo mangia di tutto, dicevamo, prende per buono quel che gli capita lungo la strada. E proprio per questo, mi spiega, le stazioni di rifornimento, i volgarmente detti autogrill (anche se in questo caso è improprio chiamarli così, perché non siamo in autostrada), per il randonneur rappresentano un punto d’appiglio, un’isola in mezzo al mare in tempesta. Una boa nell’oceano della fatica. Talvolta, quando sei esausto, dopo 22 ore consecutive in sella, mentre stai sbandando dal sonno, con le palpebre che faticano a rimanere aperte, le autostazioni si trasformano in un miraggio. L’insegna al neon nel cuore della notte, la sagoma delle pompe di benzina, le luci accese del minimarket con gli scaffali pieni di prodotti coloratissimi. Ci sono davvero o non ci sono?
Le stazioni di servizio sono spazi democratici, accoglienti, immediati. Come la bici. Sono generalmente puliti, hanno bagni e, a volte, – se si è fortunati – persino la doccia. Ma, soprattutto, ci puoi trovare cibo e caffè a volontà ad ogni ora del giorno e della notte.
Junk food nella maggior parte dei casi: merendine preconfezionate veloci da ingurgitare seduta stante, marshmallow, tramezzini. Il tutto a buon mercato. Cosa vuoi di più?
Le aree di servizio sono quasi sempre uguali in ogni parte d’Europa. Magari cambia qualcosa nell’offerta, a seconda del paese che si sta attraversando, ma il format è quello. Un porto di mare, aperto a tutti 24 ore al giorno. Per di più, cosa che non guasta, esteticamente hanno un’aura tutta particolare. Trasudano di immaginario beat, di cultura on the road, di viaggi nomadi e randagi. Stavolta non più in sella a una Harley, ma a una bici con copertoni da 28, o a una gravel con freni a disco.
E a proposito di cani, c’è una bellissima canzone dell’album più stradaiolo di Springsteen, Nebraska che inizia proprio così: “Ho visto un uomo vicino a un cane morto, in un fosso, lungo il bordo dell’autostrada. Aveva l’aria frastornata mentre toccava quel cane con un bastone con la portiera dell’auto aperta. Se ne stava lì, immobile, sulla A31, come se rimanendo lì fermo potesse far rialzare quel cane e farlo correre via”.
Come non pensare a Pantani e al suo spirito randagio?
Jacopo mi spiega che diverse volte sono state proprio le aree di rifornimento, a salvargli il culo. Un luogo caldo in cui chiudersi per qualche ora mentre fuori piove e sbuffa vento, un distributore ad alto indice glicemico quando sei in crisi di zuccheri, un bagno igienizzato dove correre ai riparti in modalità Dumoulin, quando hai un attacco di dissenteria (con quello che mangi, si capisce, è facile). O anche semplicemente un luogo dove scambiare qualche parola con uno sconosciuto: il randonneur vive di solitudine e silenzi normalmente.
Insomma, le stazioni di servizio, mi spiega, sono un luogo dell’anima per l’ultracycler.
Trovo sia una metafora bellissima, altamente poetica. Un’ulteriore conferma della mia convinzione che oggi il mito degli anni ’60 e della beat generation rivive in bicicletta.
C’è una sorta di utopia struggente nel pedalare senza soluzione di continuità attraverso mille paesaggi diversi. C’è l’arte di bastare a se stessi, o imparare comunque a farlo, e di cercare costantemente un sacro graal, di cui non si sa per nulla se esista o meno. La stessa cosa che un tempo facevano Dean Moriarty, il protagonista di On the Road di Kerouac, o anche Bob Dylan nel suo Rolling Thuder Revue Tour. C’è un’estetica in tutto questo, ovviamente, e un risvolto anche indiscutibilmente di marketing. E Jacopo lo sa bene.
Gli chiedo del piccolo, visionario brand di cui è manager, a soli 34 anni. PedALED.
Mi dice che la parola d’ordine per loro è una sola: avventura. E il payoff dell’azienda si spinge anche un po’ oltre: Dress, Live, Ride. Vestiti, vivi, pedala. Insomma, esci e parti, senza troppi retropensieri e fronzoli. Il principio base di ogni viaggio. Mentale e fisico. Dai tempi dell’Interail ad oggi.
E, guarda caso, è proprio PedALED, assieme ad altri brand, a promuovere la Transcontinental Race, oltre ad altre corse estreme, ultima nata l’Atlas Mountain Race cui abbiamo già parlato
Ma Jacopo mi confida una cosa: per il 2021, punta al colpaccio. Mike Hall gli aveva detto: “se solo tu fossi meno cazzone, arriveresti sul podio della TRC”. Prima però, mi dice, deve buttare giù ancora una decina di chili. A me sembra già in perfetta forma, forte in salita, apripista in pianura, funambolico in discesa. Mi dà consigli sulle luci da usare in notturna, sul bikepacking, su come gestirsi sulle lunghe distanze.
Jacopo ama il suo lavoro, è fiero del piccolo, grande brand per cui lavora, a testimonianza di una cosa importante: a volte, la strada della passione incrocia quella – assai più tortuosa – della professione. Se non fosse un ciclista da lunghe distanze, se non credesse nell’avventura, nella magia dei paesini balcanici, nel fiato corto dei cani che ti seguono al buio, nel miraggio di una stazione di servizio in mezzo al nulla, avrebbe continuato a lavorare in teatro. Il suo precedente mestiere e l’altra sua grande passione. Forse è questo il segreto per costruire storie nuove ed efficaci. Come quella di PedALED. Nata a Tokyo, nella piccola bottega di Shibuia (Tokyo), dall’idea di un architetto di case in legno. Hideto Suzuki. Per spostarsi dalla città ai boschi, e seguire i suoi “cantieri”, Hideto usava la bicicletta. Ben presto si accorse che quando si pedala, ci vogliono anche maglie e pantaloncini adeguati: funzionali ma anche gradevoli esteticamente. E così la piccola bottega si è trasformata in laboratorio tessile. E la piccola iniziale collezione del signor Suzuki è diventata un punto di riferimento per ciclisti avventurosi e amanti del viaggio. Questione – credo – di stazioni di servizio.
Foto:
Getty Images/Joe Daniel Price (from “It’s a Gas!” Gestalten 2018),
PedALED/Transcontinental Race,
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