Cigarettes and alcohol.

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Di tempeste e d’eroi. 
Scrivere un libro sui luoghi del Giro, come ho fatto nel mio ultimo “Storia e geografia del Giro d’Italia” significa inevitabilmente confrontarsi anche con la mente che li ha “inventati”. Perché c’è un uomo in carne ed ossa dietro il Gavia, dietro lo Stelvio, dietro gli arrivi folli come quello sul ponte di barche a Venezia nel ’78. Occorre prima immaginarli quei luoghi, perché poi si avverino. Mica tutti ci riescono.
Occorre essere molto affamati e un po’ folli, un po’ Steve Jobs un po’ Werner Herzog.
Serve farsi registi prima di girare un film. Fare ore e ore di sopralluoghi, in momenti possibilmente diversi della giornata – alba, tramonto, notte – con condizioni climatiche cangianti – tempesta, caldo, nebbia, gelo -. Lasciarsi trasportare dai posti, farsi ispirare dai territori. E poi, soltanto poi, decidere.
Scoprire i luoghi: il mestiere più bello del mondo.
Del resto, lo sostengo da sempre, sono gli scenari a disegnare le storie, soprattutto quelle di ciclismo. E non viceversa. Pensare Pantani senza Mortirolo, Hampsten senza Gavia, Merckx senza Tre Cime di Lavaredo è semplicemente impossibile. Come immaginarsi Paris Texas senza il deserto, Picnic ad Hanging Rock senza Hangin Rock, Fitzcarraldo senza la foresta amazzonica. Bene, l’uomo, la mente, il regista-esploratore dietro ogni scenario più bello del Giro è stato Vincenzo Torriani. Storico Patron della Corsa Rosa dal 1949 al 1993, più di 40 anni in giro per il Belpaese.
Visionario inventore di radure e montagne incantate, direttore della fotografia di magnifiche tempeste e buriane da fare alzare i baveri anche in piena estate. Si può dire che il Giro come è nel nostro immaginario oggi sia tutta opera sua. E non è poco.
Era un uomo difficile. Focoso, vulcanico, fianco incontenibile e a volte persino irruente nelle scelte. Ma ditemi un innovatore che non lo sia stato.
Di recente ho avuto la fortuna di stringere una preziosa amicizia con uno dei suoi figli, Gianni (autore del libro, dedicato al papà, “L’ultimo patron” – Ancora 2017). Tutto l’opposto: tranquillo, pacato, riflessivo. I suoi pensieri affidati alla scrittura, gesto individuale e intimo e non alle luci della ribalta.
Abbiamo pranzato assieme, bevuto caffè chiacchierato a lungo, discusso, visionato. È nata un’idea, che ora non sto ad anticiparvi perché sarà una sorpresa. Tanto avremo modo di farlo nei prossimi giorni. Anche perché ne mancano pochi: 14.
Per il momento, sappiate che non dovete prendere impegni per mercoledì 31 gennaio alle 19:30, diciamo a Milano, diciamo da Upcycle (via Ampere 59). Seguiranno aggiornamenti.
Adesso vi lascio in compagnia di lui, del patron Vincenzo Torriani, direttamente dal capitolo “Gavia” del mio ultimo libro “Storia e geografia del Giro d’Italia” (Utet 2017)


Il folle volo.
Maggio 1960. Roma, aeroporto di Ciampino. Sessanta giornalisti salgono a bordo del Comet 4B, il nuovissimo quadrigetto dell’Olympic Airways che verrà inaugurato proprio oggi. Qualcuno soffre il mal d’aria ma si è guardato bene dal dirlo, ordini della redazione: vietato perdersi l’esclusiva. Prendi una pastiglia e sali.

Il cielo è terso e lo sarà per tutta la durata del volo, un’ora e quaranta minuti. La visibilità è ottima e l’aeromobile all’avanguardia, vero fiore all’occhiello della compagnia ellenica. L’idea di Torriani, folle e geniale allo stesso tempo, è semplice: una ricognizione “dall’alto” dell’intero tracciato del Giro d’Italia, in esclusiva per giornalisti. Il magmatico “patron” della corsa rosa non si è smentito. Creativo, dinamico, innovativo, da lui ci si può aspettare tutto. Inclusa una presentazione “in volo”. Le sue trovate stravaganti sono all’ordine del giorno. Gli organizzatori del Tour de France lo temono, a breve – dicono – potrebbe rubar loro la scena. Corre voce che voglia rendere il Giro d’Italia persino più spettacolare della Grande Boucle. Blasfemia. E non è finita, Vincenzo, durante il volo, c’è da scommetterci, tirerà fuori qualcos’altro dal suo cilindro magico. Allacciare le cinture dunque, si decolla.
Mentre l’aereo sorvola il cielo della Lombardia, così bello quando , proprio sopra la Valcamonica Vincenzo scorge qualcosa che non aveva previsto. È una carrozzabile, stretta e ripida, che sugli atlanti e sulle mappe stradali non aveva notato. È poco più di una mulattiera, che sale irregolare e tortuosa. Non si vede dove finisce, nemmeno i ghiacciai verso cui si inerpica sembrano in grado di fermarla. E una volta in cima alla montagna, a più di duemila metri di quota, cosa fa quella strada?  Mica si ferma, inizia scendere dall’altra parte, in mezzo a due piccoli laghi, di cui uno bianco come il latte e l’altro nero come la notte. Dalla Valcamonica va verso la Valtellina, arrivando fino a Bormio. Pazzesco. Un valico alpino da dieci e lode e per giunta inedito. Torriani non ci pensa due volte: “questa salita s’ha da fare” mormora tra sé pregustando già la sigaretta che di lì a poco si accenderà. L’aero sta rientrando a Roma.  
Detto, fatto. Il “Gavia” – questo il nome di quella salita incantata e misteriosa – viene inserito così nel tracciato di quel Giro d’Italia a tempo di record. Si transiterà sul passo, la cui vetta è posta a 2.621 metri di quota, l’8 giugno 1960, durante la ventesima tappa Trento – Bormio. A vincerla, tra due muri di neve alti così, sarà Charly Gaul, anche detto “L’angelo della montagna”, perché avvezzo a questo genere di imprese sottozero. Famosa la sua epica vittoria sul Monte Bondone sotto una bufera di neve al Giro del ‘56.
Il giorno dopo la tappa, filata incredibilmente liscia, Carlo Sironi, fido collaboratore di Torriani, porta un ex voto alla chiesetta del passo: un cero alto due metri. È ancora là, nessuno lo ha più toccato. Non ci poteva credere che tutto fosse andato bene. Che gli spalatori fossero riusciti a liberare la strada, che il vento avesse miracolosamente deciso di tacere e che le nuvole fossero state, per una volta, clementi. Sul Gavia non capita mai. (…)

 

Continua a leggere “Gavia” su “Storia e geografia del Giro d’Italia” (Utet 2017)

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