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Di alcuni motivi in Fausto Coppi.
Una storia di malaria.
58 anni fa, oggi, 2 gennaio, moriva Fausto Coppi. Malaria, non diagnosticata in tempo.
La prese nell’Alto Volta, in Africa, di notte, assieme all’amico Raphaël Géminiani (che invece si salvò). Tornato in Italia, si fermò in Liguria, ad Albisola mangiò per l’ultima volta, di gusto, dicono. Poi si spense, giorno dopo giorno, notte dopo notte, linea di febbre dopo linea di febbre.
Non ho potuto ammirare, per ovvie ragioni anagrafiche, in diretta, le gesta dell’airone, ma ho sempre provato una strana empatia per lui. Di quelle singolari, che a un ciclista amatore capita di provare una, massimo due volte nella vita.
E quando andai a visitare la sua casa e il suo museo a Castellania, con la preziosissima guida Luciana Rota, provai sensazioni non facili da descrivere.
Così oggi mi piace ricordarlo con due righe dal mio ultimo libro “Storia e geografia del Giro d’Italia” (Utet 2017), tratte dal capitolo “Abetone”. Ove si celebra il luogo in cui, nel lontano 1940, difendendo i colori della Legnano del capitano Gino Bartali, Fausto venne al mondo.
Portatemi quel macellaio!
La famiglia del giovane Coppi, contadini e allevatori, aveva invece deciso in fretta il suo futuro: macellaio, un lavoro vero. Così lo avevano mandato “a bottega” a Novi. Assistente salumiere, con un avvenire assicurato. Se non fosse che Novi per il ragazzo voleva dire anche un’altra cosa: la bicicletta e, nello specifico, un nome, Costante Girardengo. Ovvero, il ciclista più forte e più bello che Dio avesse mandato in terra. Un idolo fatto e finito per insicuri come lui. Costante è quello che ti fa sognare la sera prima di andare a letto ed è il tuo primo pensiero la mattina quando ti alzi. Imitarlo e sperare di diventare un giorno come lui è e si vuole sopravvivere in mezzo alla nebbia di queste parti. Un po’ come sognare Mick Jagger per un diciasettenne nella Londra fumosa degli anni Sessanta. La luce in fondo al tunnel. Altro che affettare prosciutti e battere bistecche, Fausto Coppi a Novi andrà tutto il giorno in bicicletta, a fare la sua piccola rivoluzione a pedali. (…)
I muscoli di Coppi, invece, giovani e freschi, son in pieno spolvero oggi. Ideali – gongola Pavesi – per una salita come quella dell’Abetone. Lunga e non troppo dura, quasi più per passisti che per scalatori, per via delle sue pendenze regolari e mai proibitive. Le gambe di Fausto sono lunghe e affusolate, a differenza del corpo che pare schiacciato, quasi infossato sulla sella. Sembra che Coppi pedali stando seduto all’indietro, quasi fosse in poltrona, tanto sono lunghe le sue gambe. E invece è avanti anni luce. Mai si era visto un ciclista pedalare in quel modo così strano ed elegante.
Di quelle gambe longilinee e interminabili se n’era accorto per primo Biagio Cavanna, massaggiatore di Novi, lo stesso – guarda caso – di Costante Girardengo.
Biagio ha una caratteristica che lo rende inquietante e affascinante allo stesso tempo: non vede. È cieco. Lo è divenuto col tempo, dopo essere stato da giovane un fenomenale pistard. Eppure, come sa leggere lui i muscoli e i tendini dei campioni non li sa leggere nessuno.
Biagio è una sorta di guru o vate dell’anatomia umana, si aggira per i paesini della bassa in cerca di campioncini in erba. Lo fa sempre circondato dai suoi “scagnozzi”: per forza, loro devono vedere per lui e segnalargli poi i ciclisti papabili. Biagio se ne sta là, chiuso nel suo cappotto e bofonchia di tanto in tanto qualcosa nell’orecchio dei suoi compari: “portatelo da me, domani, alle sette in punto”. Solo tastando e massaggiando riesce a a capire se il materiale è buono. Se il campione si farà o se diventerà carne da macello.
Così aveva fatto anche con Fausto. Lo aveva fatto chiamare dai suoi, senza preavviso, un giorno qualunque: “portatemi quel macellaio che c’è giù in paese, quello nuovo che viene da Castellania, il figlio dei contadini”.
“Quale esattamente?”
“Quello che si crede di essere Girardengo”.
Avevano capito al volo.
Coppi lo avevano prelevato di forza dalla bottega, mentre incartava mortadella. Via con il grembiule ancora indosso. Quasi si trattasse di un regolamento di conti, lo avevano portato con loro di fretta e furia. Fausto si era persino spaventato e aveva chiesto spiegazioni: “come, perché vogliono proprio me? Cosa ho combinato stavolta?” Nessuna risposta.
Appena arrivato nell’antro di Cavanna, lo avevano spinto in avanti con una pedata, quasi facendolo cadere. Biagio l’aveva afferrato al volo per un braccio e lo aveva fatto sdraiare sul lettino. Prima lo aveva fatto parlare: “che mestiere fai?” anche se già lo sapeva, voleva sentirlo dire da lui, con le sue parole. “E il papà cosa fa? E la mamma? Cosa mangi? C’hai la fidanzata?” Colloqui preliminari: se aveva la fidanzata, allora non andava bene. Avrebbe fatto sempre tardi la sera e poi la mattina non avrebbe avuto forza nelle gambe.
Dopo le domande, Biagio, da navigato Omero dei pedali quale era, aveva preso a tastargli i muscoli, quasi fosse un aedo cieco ispirato non si sa da quale musa. Gli aveva fatto piegare le ginocchia, ruotare le cosce, flettere i polpacci e li aveva poi paragonati alle idee platoniche nella sua testa. E cioè ai muscoli perfetti di Learco Guerra e Costante Girardengo, i “prototipi” anatomici che si potevano soltanto imitare. Gli dice allora che lui è a metà strada tra quei due: Costante e Learco. Coppi quasi non ci crede, gli gira la testa. Ma non è finita. Il cieco aedo, colpito da quei tendini prodigiosamente elastici, aveva sentenziato: “Mangia solo carne, bevi poco e la sera va’ a letto presto, diventerai un grande campione”.
Fausto: colpito e affondato. (…)
Continua a leggere “Abetone” su “Storia e geografia del Giro d’Italia” (Utet 2017)
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Foto: ©ciclistapericoloso (sui muri di Casa Coppi – Castellania)