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E ai tuoi tempi come andava?
Mentre è di questi giorni la notizia di un Lance Armstrong al centro del più grande sistema di doping di tutti i tempi e la vicenda Bertangolli tiene banco in Italia, con una spaventosa confessione di doping massiccio praticato per tutti gli anni Duemila,
mentre tutto questo accade, sul già maltrattato e morente corpo del ciclismo professionistico, vorrei sottoporvi qui qualche piccola considerazione da blogger.
Senza pretese, eh, intendiamoci.
Allora. Gli amici mi dicono: di che ti stupisci ancora?
Io mi stupisco.
Mi stupisco eccome.
Mi stupisco a vedere la timeline dei vincitori del Tour de France degli ultimi trent’anni e constatare che non ne resta uno esente quantomeno da sospetti.
Dico uno che sia uno. O quasi.
Mi stupisco a vedere che il campione di turno, squalificato per un paio d’anni, una volta scontata la squalifica (come una sorta di servizio militare obbligatorio), torni ad attaccarsi il numero sulla schiena come niente fosse.
Mi stupisco a leggere di dottori che invitano a usare sitemi rudimentali con il rischio di far restare secchi i loro pazienti-corridori (spesso squattrinati e abbandonati dai propri team alla deriva) per embolia o altre infezioni renali, come fosse ovvio: così fan tutti? Vuoi vincere?Allora, sporcati il sangue e rischia la pelle.
Mi stupisco a pensare che per voi sia tutto ovvio: di che ci stupiamo?
E poi tanto, magari, sul divano continuiamo a guardare la tv, incollati il Giro di Lombardia e aspettiamo l’attacco di turno, possibilmente epico e spettacolare, sul Muro di Sormano avvolto dalla nebbia.
Mi stupisco che non vi stupiate. Mi stupisco di voi.
Bene, vogliamo parlare di “spettacolo”?
Facciamolo.
Si dice che Wiggins e l’ultimo Tour abbiano aperto una nuova era del ciclismo, da questo punto di vista.
Meno spettacolare, meno ambiziosa, ma dannatamente più “umana” e, quindi, in quanto tale più “pulita”.
Premesso che non so se ci credo, decido qui di lasciare il beneficio del dubbio.
Esaminiamo allora bene questo ultimo Tour.
Anzi, visto che sono stati pressoché identici, esaminiamo le ultime due grandi corse a tappe, Giro e Tour.
Se si è onesti, ci si accorge subito che entrambe sono state vinte di pura e semplice strategia di squadra. Senza voler togliere alcun merito ai vincitori.
Non c’è stata un’azione individuale, che fosse una, nessun gesto spontaneo e non calcolato. Nulla in grado di emozionare, niente in grado di incollare allo schermo.
In una parola: zero spettacolo.
Solo freddo calcolo con commenti tra gli sbadigli dei Cassani e Pancani di turno.
Al massimo, a noi spettatori veniva concessa l’ammirazione “tecnica” per la tattica di squadra, i ventagli, i tentativi di fuga chiusi subito. Non altro.
Niente epica, niente eroi nella bufera, niente Coppi, niente Pantani.
D’altra parte, si sa, anche ai tempi di Coppi, ai tempi del “grande ciclismo”, fatto di fughe che partivano da lontano, nelle vene dei ciclisti non scorreva esattamente acqua fresca.
L’Epo si chiamava”Bomba”. I test antidoping “Sansare”, ma la storia era esattamente la stessa.
Che poi ci si sia sempre fatto credere che quello fosse solo un metodo pittoresco e folcloristico di quasi fantozziana ispirazione (ricordate la “coppa Cobram”?) imparagonabile al doping moderno, beh questo fa parte della solita retorica dei bei tempi andati. Sempre di moda.
Una sorta di “Qui una volta era tutta campagna” in versione sport: qui una volta era tutto pulito.
Era più facile pensare che quei corridori lì fossero puliti. Eroi senza macchia e senza paura.
Ma torniamo al discorso di prima. Agli ultimi due grandi giri, vinti in modo quasi speculare, anonimo, soporifero, o, se preferite, “di squadra”.
Allora domando: se il ciclismo “pulito” (è bene tenere sempre le virgolette, fino a “prova” contraria) è quello attuale, dei Ryder Hesjedal o dei Bradley Wiggins, tutto tattica e strategia, zero azioni individuali, allora questo significa che anche le nostre emozioni vanno ri-pulite? Che anche noi dobbiamo farci un test anti-doping alla coscienza?
Che dobbiamo rassegnarci a corse anonime e puramente tattiche e non osare chiedere niente di più?
Corse dove quel che resta da apprezzare è solo la frequenza di pedalata di Wiggins a una crono o i rapporti usati da Cavedish in una prova in linea?
E se mai ci capiterà di vedere un’azione che ci emoziona in salita, tra due ali di folla, sotto la neve del Gavia, allora dovremo immediatamente insospettirci?
Insomma: la domanda che mi pongo, in fondo, è semplice. Si può ancora guardare il ciclismo, quello dei professionisti, in tv?
Se da una parte c’è il doping, dall’altra c’è la noia?
Tertium non datur?
La risposta non ce l’ho, ovviamente. Intendiamoci. Ma forse non sono nemmeno io che me la devo dare.
David Millar, campione reo confesso e scrittore del best seller che consiglio caldamente Racing through the dark, ha detto: “Se un’impresa è incredibile, non credete a quell’impresa”.
Dovremo rassegnarci alla noia mortale di giri vinti di qualche decimo di secondo oppure potremo immaginarci ancora classifiche capovolte in una sola tappa sotto l’acqua, magari del Galibier?
E se la Rai ci trasmette una puntata del meraviglioso format “Sfide” su Coppi, cosa dovremo pensare? Che quelli erano bei tempi andati?
O non sarà forse meglio che la Rai ci trasmetta puntate in cui va un po’ più a fondo e ci racconti che “le favole non esistono”, neanche per Coppi?
L’unica certezza che forse mi rimane, in tutta questa avvilente nebulosa grigia, è che il ciclismo siamo noi.
Noi che andiamo sullo Stelvio sotto la neve, noi che ci alziamo alle 5 del mattino d’estate, per fare 3-4 mila metri di dislivello per preparare una Granfondo, noi che corriamo nella pausa pranzo a cambiarci in un bagno, per sfruttare l’ora di tempo libero a 40 all’ora sulla ciclabile del Naviglio. Noi che mettiamo i soldi sotto il materasso per coronare i nostri sogni in carbonio a Natale.
Noi. Non loro.
Il ciclismo siamo noi.
E non c’è Coppi che tenga.
Forse, anche la tv, dovrebbe ripartire da qui.