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Why always me?
Tutta colpa di Sagan.
Questa estate, mentre ero in vacanza, mi avete scritto in tanti, facendomi complimenti davvero bellissimi per il mio libro “Generazione Peter Sagan”. Alcuni persino speciali. Li terrò ben stretti con me per quest’inverno. Sappiate che vi ringrazio di cuore, uno ad una.
Altri lettori invece sono stati più critici (e quindi per questo assolutamente preziosi). Mi hanno chiesto insistentemente una cosa: “ma perché proprio Sagan?”. Ovvero, perché ho voluto ricondurre, spesso forzatamente, tutto quanto è cambiato nel mondo bici a questo personaggio? È una buona domanda. Vi devo delle spiegazioni. Ammetto.
Lo faccio qui, con un breve estratto dal libro, quello che credo sintetizzi al meglio la mia tesi di fondo. E con la porta aperta per discuterne (virtualmente o alle prossime presentazioni: vedi sotto). Enjoy.
PS: A fine post, le date delle prossime presentazioni. Si inizia martedì 17 settembre, alle ore 19, da Upcycle a Milano (con Luca Gregorio di Eurosport)
Quel poster in cameretta
Quando era bambino, Peter Sagan aveva un poster in camera. O meglio, ce lo aveva affisso Juraj: ma, si sa, i miti dei fratelli maggiori diventano, quasi automaticamente, anche quelli dei minori. L’immagine era quella di Jan Ullrich, il ciclista tedesco che negli anni Novanta sembrava imbattibile – soltanto Pantani riuscì a sconfiggerlo alla grande: al Tour del ’98 (quel giorno rimasi incollato per ore davanti alla tv). Ullrich era una sorta di uomo bionico, dal fisico statuario e muscoloso, sicuro di sé e teutonico al massimo grado. Oggi è invece completamente diverso; l’ho incontrato all’Ötztaler Radmarathon, qualche anno fa: faceva da testimonial per la granfondo, da traino per gli amatori tedeschi, sempre numerosissimi a questa manifestazione. Era irriconoscibile: grasso, impacciato, lo sguardo assente. Non mi pareva il normale «lasciarsi andare» di un atleta dopo il ritiro. Non sapevo spiegarmi cosa gli fosse capitato.
Per caso, mesi dopo, mi è capitato tra le mani un trafiletto della «Gazzetta dello Sport»: Ullrich era stato ricoverato in una clinica psichiatrica. Non solo, ma era anche accusato del tentato omicidio di una escort e di molestie alla fidanzata. Si diceva, nell’articolo, che fosse in uno dei periodi più bui della sua vita. Non faccio fatica a crederlo e mi viene da dire: non che all’apice della carriera sportiva fosse un campione di sorrisi e di allegria. Se rivedo i suoi scatti irresistibili in salita, ma anche la sua sofferenza mentre cede la maglia gialla a Pantani sul Galibier, mi viene in mente tutto tranne che la gioia saganiana – e anche nostra – in bicicletta. Se oggi quell’uomo soffre in una clinica psichiatrica, ieri soffriva in sella, nella bufera del Col du Galibier, sotto l’acqua torrenziale e il termometro a quasi zero gradi, scortato dai suoi fedeli losers per arrivare, esausto, fino al traguardo. Mi sembra insomma che la bici abbia riservato a lui soltanto dolore, nel bene e nel male, prima e dopo. Come, del resto, è capitato a Pantani, con una fine ancora più tragica.
Affaticamento (non solo) muscolare
«La bici insegna cos’è la fatica, cosa significa salire e scendere – non solo dalle montagne, ma anche nelle fortune e nei dispiaceri» ha dichiarato Ulrich di recente alla stampa, con una certa amarezza e rassegnazione. Rassegnazione che pare diametralmente opposta a ciò che alla bicicletta chiede Sagan, ma anche a ciò che chiedono David Trimble e il popolo delle fixed, e in fondo anche noi che saliamo il Turchino alla ricerca del sole perduto. Ullrich e tanti altri sembrano dirci: in bici non c’è proprio niente da ridere. Questo non è un momento di svago, non è il calcio, il basket o la pallavolo. Al ciclismo non si gioca, per il ciclismo ci si immola.
Mi spiace: non per noi, non per me e i miei amici. Oggi alla Sanremo, a queste lunghe ore passate in sella, abbiamo chiesto soltanto e semplicemente di portarci via. Di aiutarci a staccare la spina, per una mezza giornata, non di più, per poter poi tornare alla vita di tutti i giorni, più rinfrancati, in equilibrio e in ultima misura più forti. A cosa servono le vacanze? E cosa è il pedalare se non una forma di vacanza mobile? Pedalare per allontanarsi dallo stress, dai pensieri, e magari, perché no – ogni tanto ci vuole – persino dagli affetti. Lo fanno i più prestigiosi top manager al mondo, da Murdoch a De Benedetti, lo fanno i vip come Jovanotti o Linus, perché non dovremmo farlo noi, ciclisti della domenica?
In missione per conto di Peter
Sono le dieci e mezza di sera, siamo in una piccola osteria di Ospedaletti, borgo alle porte di Sanremo. Il proprietario, abbiamo scoperto, è un ex ciclista che ha appeso da tempo la bici al chiodo. Brindiamo alla nostra impresa, tutto è andato benissimo, anzi, oserei dire, in maniera perfetta: missione 300 chilometri compiuta con mucho gusto.
Siamo stanchi, stravolti, ma di quella stanchezza, che dà piacere, le endorfine prendono il sopravvento su ogni cosa. La birra, bevuta d’un fiato, fa il resto. E abbiamo molta fame.Quando siamo entrati, i camerieri stavano già mettendo a posto e la cucina sembrava sul punto di chiudere. Un brutto colpo per noi.
Finire questa giornata a stomaco vuoto sarebbe stato drammatico. Mi sono guardato intorno, ho visto appesa al muro una fotografia in bianco e nero di un arrivo della Sanremo di molti anni fa: Eddy Merckx a braccia alzate in via Roma, esattamente nel punto in cui eravamo passati noi, con i led accesi di nuovo, poco prima. In quel momento ho capito che la fortuna non ci aveva abbandonato. Ho guardato dritto negli occhi il proprietario e gli ho detto: «Senta, noi veniamo da Milano, in bicicletta. Siamo in missione per conto di Peter Sagan. Vorrà mica mandarci via?».
CONTINUA SU GENERAZIONE PETER SAGAN
Foto: Instagram @petosagan – Jakob Kristian Sørensen – ciclistapericoloso