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Vado un attimo nella Foresta.
“Drève” indica una linea retta, circondata dagli alberi. E la Foresta di Arenberg è esattamente questo: è l’unico dei settori in pavé di cui si compone la Parigi – Roubaix a essere perfettamente rettilineo e immerso in un bosco. Questa è anche la sola zona della corsa che viene transennata. Il motivo è semplice quanto affascinante: ogni anno si riversano qui, come in un rituale pagano, decine di migliaia di tifosi provenienti da ogni angolo d’Europa. In particolare però dal Belgio – caratteristiche e ben visibili sin da lontano le loro bandiere con l’iconico leone delle Fiandre – e dall’Olanda.
La Foresta di Arenberg in dati: 2400 metri di lunghezza, leggera discesa iniziale e poi leggera salitella subito dopo. Irrisoria, ma pur sempre dislivello, e – piccolo particolare – tutto sul pavé. La sciagurata idea di introdurre questa antica mulattiera aggiuntiva nel percorso ufficiale della Parigi-Roubaix, la Regina delle classiche, “L’inferno del Nord” venne nel 1968 a monsieur Jacques Goddet (anche organizzatore del Tour de France).
Di primo acchito Jacques si spaventò: “C’est orrible! – disse – qui mi si ammazzano”. Ma subito dopo ci ripensò. O, meglio lo convinsero, delle straordinarie opportunità offerte da questo sgangherato settore. Peculiarità della Foresta di Arenberg, oltre all’essere l’unico tratto in pavé senza curve della Parigi-Roubaix, è quella di avere un fondo costantemente in cattivo stato. Anzi, se non è sufficientemente malmesso, occorre impegnarsi per fargli raggiungere un adeguato livello di sadismo nei confronti dei ciclisti che lo attraverseranno (sterco di cavallo incluso). Opera “pia” dei numerosi volontari che preservano ognuno di questi malfamati settori del Nord della Francia come fossero statue. E in effetti, i tratti in pavé della Regina delle classiche, monumenti nazionali, lo sono per davvero.
Nonostante si trovi a oltre 90 km dall’arrivo (quest’ultimo nel velodromo di Roubaix), uscire vivi dalla Foresta di Arenberg pare sia già una mezza vittoria.
Se poi ne esci addirittura in testa alla corsa, può anche darsi che tu vinca per davvero. Chiedere a Francesco Moser – alias “Lo sceriffo” che la Roubaix la vinse 3 volte. Impresa mai riuscita né prima né dopo ad alcun altro italiano. Tanto per intenderci: i detentori del massimo numero di vittorie, i belgi Roger De Vlaeminck e Tom Boonen contano 4 successi ciascuno.
E non ce n’è: la Foresta la devi affrontare rigorosamente “a tutta”. Solo andando al massimo, “galleggiando” sui “cobblestone” (come li chiamano gli inglesi), ce la puoi fare. Che poi “Cobblestones” mi suoni come qualcosa che ha a che fare con Mick Jagger e compagni, questa credo sia una faccenda secondaria e casuale. Nella Foresta devi nuotare più che pedalare. Un pavé che non ha nulla a che fare con quello cui siamo abituati noialtri: pietre giganti e dalla forma irregolare, rese tremendamente insidiose, perché scivolosissime, in caso di pioggia (cioè praticamente sempre). Sopra vi si depositano infatti fango, rami, sabbia, terriccio, persino carbone dalla vecchia miniera che c’è da queste parti.
Ché questo è un luogo di fatica da sempre: qui i minatori ci venivano a mangiare nella loro pausa per il pranzo. Occhi sbarrati, pelle scura, fisico smilzo e scavato dai morsi della fame. Tutt’altro che quello che devono avere i ciclisti da queste parti.
La Foresta di Arenberg è insomma un’autentica mattanza a pedali.
Si pensi solo, giusto per rendere l’idea, che viene chiamata anche Il Tranchée d’Arenberg: la trincea di Arenberg. Un luogo dove si combatte, si urla, ci si chiude nel puzzo e nel sudore primordiali.
E questo del resto è stato luogo di furibondi scontri soltanto un secolo fa: era il confine franco-tedesco. E qui si scrivevano lettere dal fronte che sembravano adii anzitempo.
Questo per dirvi che domenica sarà Parigi-Roubaix. Si tornerà a combattere nel fango della Foresta di Arenberg, si tornerà a darsele di santa ragione. Si tornerà a lottare sul pavé, dove l’ultimo italiano a uscirne vivo e trionfatore fu Andrea Tafi, nel lontanissimo ormai 1999. Forse non abbiamo i corridori adatti, forse questa corsa ci respinge come la Champions League le nostre squadre di calcio, ultimamente. Forse è al momento un altro fottuto campo da gioco, non il nostro. Però, vivaddio, incolliamoci lo stesso allo schermo. Ché i veri protagonisti, lo dico sempre, non sono i ciclisti. Sono i luoghi.
Posti che hanno una storia speciale, che sanno stregare, ammaliare, mandare al tappeto. Lo fanno con una loro presenza: quasi fossero vere persone, in carne ed ossa. Capaci di provare passioni, emozioni, talvolta innamorarsi di qualcuno. Altre volte si incazzano di brutto e reagiscono male, possono essere permalosi o malmostosi, ma anche eccentrici e generosi. Se si entra in connessione sotterranea con loro, in una sorta di “empatia geografica”, si possono però scrivere pagine magnifiche. Come quella appunto di Francesco Moser, o di Franco Ballerini nel ’98 (la sottomaglia “Merci Roubaix” chi se la dimentica più?).
A domenica dunque. È tempo di entrare in “Trincea”.
Nel frattempo scaldo i motori: scendo un attimo in graziella in Corso di Porta Romana, giusto duecento metri sul pavé in apnea, appena appena per riscaldarmi.
Foto: Paolo Ciaberta