Si deve fare fatica.

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Fiandre, mon amour.
Beh, devo ammettere che di questa gara mi sono invaghito per davvero solo di recente.
Le classiche mi hanno sempre entusiasmato meno dei Grandi giri. Colpa mia, chiedo venia. Un’idiosincrasia che sa più di lacuna ciclistica che di dimenticanza.
Credo però negli anni di averla colmata e di non mentire se vi dico che oggi la Ronde van Vlaanderen (questo il nome in fiammingo del Giro delle Fiandre) è uno degli eventi ciclistici che più attendo durante l’anno. Di più, ho già la bava alla bocca al solo pensiero di domenica pomeriggio. Se poi penso che ci sarà anche Vincenzo nostro, clamorosamente bello, mi commuovo anche quasi.
Quello che mi colpisce, più che il percorso e la gara in sé, del Giro delle Fiandre è il contorno. La straordinaria partecipazione di pubblico a questa classica del Nord, il contesto, i suoi luoghi simbolo.
E tra questi ce n’è uno – il simbolo dei simboli – di cui oggi in modo particolare mi va di parlarvi, aprendo la strada per domenica 1 aprile, quando si correrà la 102esima edizione del Giro delle Fiandre. Si tratta del Koppenberg ovviamente. Il berg (muro in ciottoli, tipico delle Fiandre), più famoso e duro dell’intera Ronde.

Koppenberg, chi era costui?
Nemmeno 1 chilometro, anzi seicento metri scarsi. Questo è Il Koppenberg.
Vicino all’altro fratello suo: il Paterberg, altra salita durissima e infame del Giro delle Fiandre (la più dura, se si considera la pendenza media). Ma il Koppenberg è ben altra cosa rispetto al Paterberg. Un muro a sé, una rampa di garage capace di fare spesso selezione da sola (da qui al traguardo non manca moltissimo). Un luogo che mette paura solo a sentirlo nominare, che si sia ciclisti professionisti o non (esiste una versione per amatori della Ronde van Vlaanderen, si corre ogni anno il giorno prima di quella dei professionisti, dunque domani, e raccoglie fino a 16.000 partecipanti, 3 i percorsi a scelta: 71, 127 o 239 chilometri). Carreggiata strettissima, quasi un sentiero da fare a piedi, sperduto in mezzo ai campi. Pendenze da mountain bike o ciclocross al massimo. In alcuni tratti si supera il 20% (si dice 22% ufficialmente). Fondo, ça va sans dire, in pavé. Praticamente un girone dantesco. Non per niente sul Koppenberg regna tradizionalmente il caos: se un ciclista del gruppo ha qui anche solo un’esitazione, prende a zigzagare improvvisamente o peggio ancora cade, l’effetto domino diventa devastante. Qui perciò si deve rimanere accucciati in sella, vietato alzarsi sui pedali, obbligatorio invece spingere rapporti il più duri possibile. Vero Peter? Vero Fabian? Vero Eddy nostro? Vero Philippe?
Solo così si evita di cascare rovinosamente sul selciato.
Questo è un muro da cuori forti, divenuto ben presto un luogo magico del ciclismo, un santuario del dislivello nonostante la sua modesta altitudine (solo 77 metri sul livello del mare, una sessantina di dislivello). Il Koppenberg mette alla prova da anni qualunque tipo di ciclista: sua prima introduzione nel 1976, su suggerimento di un rivale di Merckx: obiettivo metterlo in difficoltà. Anche i migliori al mondo a volte hanno dovuto farsela a piedi. Figuriamoci gli amatori: a proposito, in culo alla balena per domani!

La salita che non era una salita. 
Ma una cosa è certa: questa non è una salita da scalatori tradizionali. Io volerei via sul Koppenberg, ma chi ha detto che un giorno non mi cimenti anche io con questo mausoleo del dislivello. Il “Kopp” (introdotto per la prima volta nel 1976, poi tolto nel 1988, infine reintrodotto nel 2002) è un magnifico ossimoro del dislivello: qui prevalgono i ciclisti potenti, quelli che vanno via di forza brutale e che solitamente sui passi patiscono le pene dell’inferno. Belgi in primis.
Salire il Koppenberg non è fare una salita. È fare braccio di ferro con la propria bicicletta. Il più delle volte vince lei: tra gli amatori qui sono in parecchi a mettere piede a terra, tra i professionisti le cose non vanno meglio (nel 2006 qui ci arrivarono in sella soltanto 7 corridori). I pesi piuma escono facilmente respinti da questo tormento brutale. Spazzati via con rude cattiveria. Koppenberg è la salita che non era una salita. Era una tormento, una rovina, una magnifica eccezione per matti da legare.
Il “Koppen” però (sottoposto a “restyling” due volte, una negli anni novanta l’altra tra il 2006 e il 2008) vuol dire anche una stradina che si infila tra dolci filari d’alberi, staccionate e prati di campagna. Un luogo apparentemente anonimo, in realtà divenuto unico al mondo. Qui, nel 1987, ci cadde, spinto maldestramente dall’auto delle giuria il ciclista danese Jesper Skibby: era in testa, aveva ben 10″ di vantaggio sugli inseguitori. L’auto passò sopra la sua bici, distruggendogli la ruota posteriore. Corsa fottuta. Urla di disapprovazione lungo tutto il ciottolato del Koppeneberg. L’anno dopo lo tolsero dal percorso ufficiale: troppo pericoloso, troppo caos, si disse. Salvo poi reintrodurlo nel 2002, levarlo nuovamente nel 2006, rificcarcelo dentro nel 2008. Una salita che o si odia o si ama, che non accetta mezze misure che da anni fomenta polemiche indicibili.
Come sottrarsi al fascino indiscreto di questo posto magico, di questa altura in un paese altrimenti senza montagne?
Appuntamento per gli amatori domani all’alba.
Per noi pigroni, domenica primo pomeriggio direttamente dal divano.
Buon Fiandre a tutti e forza Vincenzo.

Foto: Cor Vos Pez Cycling News