Charly Don’t Surf.

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“Mi fa male il cuore”
No, lui non surfava (anche se, come nella canzone dei Clash, avrebbe voluto farlo). Il fatto è che lui volava su quei tornanti. E non poteva fare diversamente. Quasi fosse una missione.
Niente di strano quindi se poi volle a tutti i costi incontrarsi con Marco Pantani, l’unico – a suo dire – che in epoca moderna gli ricordava un po’ se stesso: “per me esiste solo Pantani” continuava a ripetere a chi gli chiedeva pareri su qualche nuovo campione al Tour o al Giro. Forse la voglia di andare via in salita, eclissarsi, allontanarsi un po’ dalla terra ferma, la stessa dei marinai. Chissà. Era lussemburghese Charly, e al mare c’era stato poco, forse da piccolo tenendo per mano mamma e papà. Ma del mare poteva sentire il profumo a ogni colpo di pedale. Appena in salita, leggero leggero, con quegli occhi azzurri azzurri da Paul Newman, scattava in faccia agli avversari e al mondo intero.
“Mi fa male il cuore” disse a Tonina il giorno dei funerali di Marco a Cesenatico. Ed era vero, questa montagna umana (ormai oltre cento chili, difficile credere ne avesse pesati poco più che la metà in gioventù) , barba bianca e lunga, occhiali da sole, soffriva. Soffriva maledettamente, per l’amico mancato prematuramente.
Lì – quel giorno di febbraio – il mare lo aveva visto e sentito davvero Charly, dal Porto Canale, appena fuori dalla chiesetta, nascosta dalla folla. Proprio là, a pochi metri da dove Tonina si era messa ad urlare di rabbia. Gli occhi gli si erano inumiditi a quella vista. Una tragedia greca a tutti gli effetti gli era parsa.
Beveva Charly, non ha mai smesso, da quando aveva appeso la bici e le scarpette al chiodo. Vita da eremita, un’eterna e definitiva fuga dal mondo. Quella che si era scelto cinquanta anni prima,
Marco, prima di morire, ne aveva ricambiato di buon grado l’affetto, e come poteva fare diversamente? Erano uguali. E così si erano incontrati, avevano “combinato”, Marco lo aveva abbracciato forte, sorridendo. Quasi capisse, in un semplice schiacciarsi di braccia e bacini, in quel contatto fisico così puro e naturale, che i due appartenevano alla stessa specie. Sempre data in via di estinzione, ma poi chissà se è vero.
Eremiti della vita, scalatori puri, in perenne ascesi.
No, Charly Gaul non surfava, non ha mai surfato. Troppo facile, troppo da ottimisti, roba non per lui. Il Monte Bondone, la “Montagna dei trentini” se ne ricorda ancora.
Senza Charly, senza quel pazzo Giro d’Italia del 1956, senza quella tappa e quella neve, che sarebbe mai stato del Monte Bondone?
Allora, siete pronti a salire sulla montagna dei trentini sotto una fitta nevicata, quella dell’8 giugno 1956? Coraggio, tirate su il bavero, farà freddo. Un freddo cane.
Chiedere ad Aldo Moser e Fiorenzo Magni.

PS: anche Joe Strummer (l’autore di questa canzone, “Charlie don’t surf”, presa in prestito al film di Coppola “Apocalypse Now”) si è scelto una bella vita in salita. Chissà se ha mai conosciuto Chary Gaul. Chissà se Charly ha mai ascoltato i Clash. Di sicuro si sarebbero piaciuti.

Storia di un foulard e di un presunto mal di gola.
Charly si infila la mantellina in mezzo a una selva di ombrelli e schizzi di fango, e si butta nell’ultima discesa. La gente lo guarda più stravolta di lui. 
Il termometro in cima al Bondone è spietato: ci sono 8 gradi sotto lo zero. Praticamente la Siberia in Trentino, in pieno giugno. Nevica così forte che sembra di essere sotto la fresa. Lino ha già contato venti centimetri. Quando arriveranno i corridori, prevede, saranno almeno quaranta. Hai voglia a tenere sgombra la strada e a fargli indossare le mantelline antipioggia. Assideramento assicurato.
(…)
All’attacco del Bondone, si coprono tutti, quasi in segno di rispetto: chi con la mantellina, chi con qualche impermeabile di fortuna recuperato da tifosi. Tutti tranne uno. Charly Gaul, ça va sans dire. Come ogni scalatore che si rispetti, Charly elimina strategicamente ogni orpello inutile. Anche davanti al Bondone. Si alza sui pedali quasi nudo, indossa solo una maglia e un paio di braghette corte. È l’unico a farlo. Anzi, a guardare bene, c’è anche qualcos’altro che risalta nel suo abbigliamento: un foulard a pois, è bianco e rosso come i colori della sua squadra, la Faema. Lo tiene stretto attorno al collo, quasi avesse mal di gola. Chissà perché. Un portafortuna, una promessa, un sogno forse. Non lo sapremo mai.
La salita del Monte Bondone misura quasi 20 chilometri, con un tratto centrale particolarmente duro, attorno al 9% di pendenza. Affrontarla in balia di una tormenta di neve, dopo aver già fatto 4 passi alpini sotto l’acqua, è un incubo che non augureresti nemmeno al tuo peggior nemico. Chi sale lo fa a zigzag tremando come una foglia, chi decide di non salire – la stragrande maggioranza – si ritira e sviene sotto docce calde incautamente accese. Quando sei in ipotermia, ci devi andare piano con l’acqua calda, o rischi il collasso.
Gaul pesa sessantadue chili scarsi, il suo corpo è un fascio di nervi, mentre sale i tornanti del Bondone, la sua pedalata si fa ancora più agile, sciolta, disinvolta. Charly si alza sui pedali, lo fa spesso, oppure si accovaccia curiosamente in avanti. A molti il suo stile non piace, lo trovano sgraziato, i puristi storcono il naso. Diversi giornalisti hanno già fatto notare la differenza rispetto alla “classe” di Coppi: “questo qui va su di nervi e di elasticità, sta tutto raccolto in avanti e non di dietro, come faceva invece Coppi con quelle sue gambe lunghissime”. Gaul ha un nuovo modo di pedalare, è vero, sconosciuto ai più, del resto è nato oggi sulla neve del Bondone. Ci vorrà un po’ per digerirlo.
I ciclisti oltre al freddo, ora devono fare i conti con un altro, terribile, nemico: la vista. Nevica così fitto, che non si vede niente. Tutto diventa bianco, cielo, strada, alberi, gente. Gli occhi tagliati di traverso dal ghiaccio e dai fiocchi impetuosi bruciano, fanno male, è un’impresa tenerli aperti. In una quarantina si ritirano lungo l’ascesa. È una lunga, inevitabile, via crucis. Qualcuno è in preda alle convulsioni, qualcun altro al delirio. Carneficina Bondone.
Fornara arranca ancora. Sembra dirsi che dopo tutto se riesce ad andare avanti, se continua a pedalare e non si ferma, alla fine quei 17 minuti che Gaul gli ha già ripreso, glieli ridaranno indietro per pietà. Niente da fare. Barcolla, ha le vertigini, trema febbricitante. Dopo un tornate, percorso zigzagando paurosamente, di schianto crolla tra le braccia del suo massaggiatore. Indifeso, inebetito, praticamente assiderato.
Nella zona d’arrivo, la gente si è chiusa nei bar o negli alberghi. In centinaia, stipati come animali, scricchiolano sul parquet, riscaldati dal magico effetto condensa. Puzzo di stalla compreso, ma va bene così. Vorrai mica stare fuori? Di questo freddo e di questa neve nessuno ne vuole più sapere. “Dieci sotto zero!” urla qualcuno nella tormenta. Lo tirano dentro a forza.
Eppure Gaul, più giovane e impavido, sembra non sentire nulla. Ha superato adesso il tratto centrale del Bondone, quello più duro, con le pendenze più cattive. Gli manca poco, respira l’impresa e si china, se possibile, ancora di più in avanti. Sarà anche brutto da vedere, ma questo scalatore è una bomba. La neve gli si accumula sul cappellino e sulle sopracciglia, la bocca trema, le labbra sono livide e gonfie. Gli occhi però sono ancora vivi, accesi nel loro azzurro limpido, un bel segnale. Manca poco, una manciata di chilometri. Gli abeti lasciano cadere improvvisi mucchi di neve sui tifosi. La gente si scansa di scatto, sotto la doccia imprevista e cerca di pulirsi come può. Ma Gaul non se lo vuole più perdere nessuno (…)

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