Think Pink

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Pensare Rosa: voce del verbo “Milano”.
“Think Pink” si chiamava, ed era una marca di abbigliamento per teenager. Lo è ancora oggi, intendiamoci, mica è fallita. Ma una volta – negli anni 80, tanto per cambiare  – lo era un po’ di più.
Insomma, avete capito. C’era chi aveva “Best Company” e chi si doveva accontentare di “Think Pink”.
Io mi dovevo accontentare.
La mia felpettina slavata me la portavo sempre con me, ovunque. Orgoglioso e spavaldo come Tom Dumoulin al Giro d’Italia.
Oggi che sono adulto e ho due figli la rivorrei indietro subito. Già perché – ho capito – io amo il rosa. E lo amo alla follia. Un colore  bellissimo e intenso, che avevo sempre sottovalutato. Da far perdere la testa.
Da ieri, poi, il rosa è diventato anche il colore ufficiale di Milano. Mai così bella, mai così accesa, mai così carica di pollini, profumi ed emozioni. Viali, parchi e monumenti si sono trovati come per magia imbrattati di questa strana tinta contagiosa. Quasi nella notte fosse passato un gigante buono con una latta di quel colore lì (pantone 13 – 1520) e l’avesse sguaiatamente spruzzato un po’ qua un po’ là.
E i milanesi quando si sono alzati, mentre sorseggiavano il caffè, si sono guardanti con una strana luce negli occhi. Hanno capito che sarebbe stata una giornata speciale.
A dire la verità ieri però, a Milano, non è andato in onda solo il rosa.
Anche se credo – a essere onesti – che sia tutto merito suo. È stato lui a far saltare fuori dai tombini e dalle mattonelle di pavé malmesse tutti quegli altri pazzi colori.
E per le strade era tutto un tripudio di tinte intense, ottundenti. Quasi da LSD.
Dal giallo-blu-rosso colombia dei tifosi di Quintana (2° classificato), all’arancio-blu-bianco del team Bahrain Merida di Vincenzo Nibali (3°). Dall’azzurro zaffiro Astana che si fondeva con il cielo senza nuvole, al verde brillante Cannondale mimetizzato alla perfezione con quello, leggermente più scuro, dei giardini di Porta Venezia.
Milano ieri era “Lucy in the sky with Diamonds”. Teniamocela stretta quando fa così.
E allora, ora che è tutto finito, vi propongo di tornare indietro.
A quella prima notte, tutta rosa, del 1909. Che dite, ci state?

Rewind 
Milano, 13 maggio 1909, due e mezzo del mattino.

Una leggera brezza, che qualcuno dice venire dai laghi e qualcun altro dal mare, soffia lungo Corso Buenos Aires. I radi lampioni illuminano il pavé disseminato di buche, ghiaia e rotaie sporgenti. La gente si accalca attorno al “Rondò Loreto” quasi fosse un enorme cratere vulcanico da cui si attende una spettacolare eruzione di lava. Si sono assiepati lì dalle sei di sera, orario della “Punzonatura”, il tradizionale rito di controllo delle “macchine a pedale” e di distribuzione dei numeri di gara. Tra qualche minuto, proprio da qui, lo snodo principiale di Milano Nord, passeranno 127 ciclisti. I partecipanti al “Primo Giro Ciclistico d’Italia”. L’avventura del secolo.
(…)
Ci siamo, tutti hanno doppiato quel Capo di Buona Speranza che è il “Rondò Loreto”. Ora si inizia a fare sul serio. Ora è Giro d’Italia.
Dici “Loreto” e hai detto le Colonne d’Ercole di Milano. Da qui, la capitale del Nord diventa piccola. Le sue luci progressivamente scompaiono, i campi guadagnano spazio a discapito delle case, le prime leggere ondulazioni del terreno si fanno presto colline, quelle della Brianza, poi boschi impervi e infine vere e proprie montagne. Le Grigne, il Resegone, alture rocciose dove la neve resta fino a giugno e i sentieri sono ripidi e .
I piccoli canali d’acqua che percorrono la città in lungo e in largo si trasformano ora in torrenti insidiosi che poi confluiscono in veri fiumi. Come l’Adda o il Lambro, capaci di mandare alla malora in un attimo coltivazioni, case e famiglie intere. E che dire delle chiuse del Naviglio della Martesana, quelle che se non stai attento ci finisci dentro come niente? Altro che Giro d’Italia, qui c’è da lottare per restare vivi.
I fari delle specialissime, azionati con il dinamo, cercano di fare luce come possono. Se visti da lontano, i piccoli ciclisti si confondono con le lucciole, le prime della stagione. Lillipuziane palline gialle che vagano nell’aria come anime in pena, senza una meta. Un gruppo sparuto di automobili si accoda ai corridori: sono quelle del seguito. Sembrano fantasmagorie nella polvere notturna. A bordo ci sono dirigenti, giuria e qualche giornalista. Per i più fortunati, magari c’è anche un meccanico pronto a intervenire. Gerbi è già caduto, pare che un ragazzino gli abbia tagliato la strada e zac… Diavolo Rosso è cascato a terra gambe all’aria come un salame. Guasto alla bici, tre ore di sosta alla fabbrica della Bianchi e gliel’hanno restituita come nuova, ora è già ripartito, dicono. Vuole riacciuffare gli altri prima di Bergamo, dove è prevista la prima sosta meccanica. Poi proseguiranno per Peschiera, il Lago di Garda, e poi Verona, Padova, Ferrara e infine Bologna, ippodromo Zoppoli. Giusto per allungare un po’ il brodo. Chi ha disegnato il percorso è un sadico che non ha a cuore la fatica umana. Ganna, corre voce, è già in fuga, con il coltello tra i denti e gli occhi della tigre. Rossignoli, Pavesi, Petiti Breton e anche quell’outsider, Dario Beni, alle calcagna. Dietro di loro tutti gli altri. Ma è un cadere o sbagliare strada di continuo: chi finisce giù nei fossi, chi è costretto a repentine deviazioni per ritrovare il percorso. Il buio fa il resto: upupe, ratti e cani affamati sono i compagni di viaggio più frequenti. Una lunga parata di bestie e uomini, questo primo Giro d’Italia.
Certo, ogni tanto puoi farti aiutare dai fari familiari delle auto. Basta che ti metti davanti al cofano, ti fai piccolo e lasci che siano loro a illuminarti la strada: per qualche minuto vedrai un po’ meglio e potrai evitare buche e fossi. Ma è una pia illusione, presto o tardi la vettura ti supererà e sarà di nuovo buio.
Sarà di nuovo Giro d’Italia.

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Photo credits: ©ciclistapericoloso (28 maggio 2017, ore 17:47 – piazza del Duomo)