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PPP al Giro d’Italia.
Pasolini vs Adorni. Anzi no: Adorni vs Pasolini.
Pronto, Vittorio Adorni?
In persona, chi parla?
Salve, sono Pellizzari, sto scrivendo un libro sul Giro d’Italia, le posso rubare qualche minuto?
Eh diamine, sono tutto orecchi. L’ho vinto il Giro io, sa?
Certo, lo so e ho ammirato molto la sua classe, quasi “aristocratica”, un signore. In bici e anche giù di sella, capace di parlare fluentemente, di concedersi con gli intervistatori senza dire le solite banalità. Ma io non voglio rubarle tempo su questo, e nemmeno sui suoi rapporti con Eddy Merckx, il più forte di tutti, di cui lei era compagno di stanza e mentore.
Ciò che mi interessa è qualcosa d’altro.
Ah, e cosa sarebbe questo qualcosa d’altro?
Si ricorda di quando intervistò Pier Paolo Pasolini?
…
Le vengo incontro: Processo alla Tappa, 1969, conduce Sergio Zavoli. Pasolini è ospite in studio, dall’altra parte, dall’arrivo di tappa, dovrebbe esserci Eddy Merckx, ma ha dato forfait. E Pier Paolo si trova di fronte lei.
O, meglio, lei si trova di fronte Pier Paolo, l’intellettuale, il drammaturgo, il regista, il poeta.
Guardi che me la ricordo perfettamente quella storia lì. Forse è meglio se gliela racconto io, che la so meglio. Anzi, già che ci sono, le dirò anche due o tre cose che so su Pasolini, che era speciale. Mica come voialtri oggi. Un altro così non lo inventano più.
Allora, ha voglia di sentirla questa storia?
Roma, città più che aperta.
Pasolini a Roma ci arriva per la prima volta nel 1950, insieme alla mamma Susanna. Poveri in canna, sono venuti dal Friuli a sbarcare il lunario. Lui ha appena perso il lavoro ed è stato espulso dal Partito Comunista, lei vuole stargli vicino per cercare di aiutarlo. Il primo a dar loro una mano è lo zio, che a Pier Paolo offre una stanza, la prima, in piazza Costaguti, nel cuore Ghetto Ebraico. La signora Colussi, questo il cognome da nubile della mamma, si dà da fare invece come può, fa la domestica per i Pediconi, famiglia dell’alta borghesia romana. Le basta giusto il necessario per sfamare il figlio e prendersi anche lei un posto dove dormire, possibilmente non lontano da lui. In sostanza, due anime in pena immerse in una fantasmagoria più grande di loro, Roma. La città eterna, fatta di vicoli infiniti che si intersecano tra loro sul più bello, di saliscendi in pavé sconnesso percorsi da lambrette male in arnese, di parchi sudici ma con piante rigogliose di una bellezza sconvolgente; di piazze così grandi e magnificenti da perderci la testa. I cieli a Roma al tramonto si accendono, diventano rossi e viola. Il giovane Pasolini se ne innamora fin da subito e si convince che altrove di così belli non ne troverà. E di fatti cerca di non perdersene nemmeno uno. Se è in anticipo, rallenta il passo lungo viale dei Fori Imperiali per aspettare che il sole cominci a calare; se è in ritardo, accelera, verso piazza Venezia magari lasciando l’interlocutore interdetto: “scusa ho un appuntamento con il tramonto”. I pori della sua pelle si imbevono completamente, all’unisono, di questa bellezza straordinaria e sconvolgente. Esattamente come accadde anche al giovane Goethe che venne qui duecento anni prima di lui. Pier Paolo cede stordito a questa atmosfera, si lascia avvolgere completamente dalle sensazioni, non oppone resistenza alcuna. Come davanti allo sprigionarsi del profumo intenso del primo fiore a primavera. (…)
Il Camoscio d’Abruzzo e i ragazzi di vita.
Pier Paolo è ospite del Processo alla Tappa, fatto curioso ma non infrequente: da un po’ di tempo gli scrittori e gli intellettuali sono ospiti fissi del programma, chissà perché. Hanno cominciato un po’ tutti a parlare di ciclismo, ne discutono, si accalorano persino, quasi fosse il calcio. Gli ha preso la smania di raccontare di questa strana fatica a pedali: Berto, Gatto, Montanelli, Bevilacqua, per citarne solo alcuni. Non c’è pomeriggio o quasi in cui al Processo non si vedano grandi teste venire a scervellarsi su Gimondi, Adorni o le Tre Cime di Lavaredo. Ci vedono un’enorme metafora del Paese forse, oppure chissà, una sintesi delle sofferenze e delle miserie umane, uno sport più meditativo e acetico di altri, vallo a sapere. Cose “da scrittori” appunto.
Sta di fatto che Pasolini oggi si aspetta Merckx l’invincibile e invece si trova davanti Adorni l’aristocratico. Un bel match.
E così Vittorio, forse per rompere il ghiaccio o scongiurare la soggezione, decide di partire all’attacco, una fuga garibaldina sul Pordoi.
“Sa, Pasolini, noi ciclisti siamo abituati a sentirci fare sempre le solite domande dai giornalisti: i rapporti, il manubrio, la sella, cosa mangiamo, cosa non mangiamo, chi ha dato il via alla fuga, insomma solo cose tecniche. Ma lei è uno scrittore. Perciò oggi, se non le spiace, sarò io a farle qualche domanda”.
Bum! L’intervistato diventa intervistatore. Zavoli pare a disagio, quasi in imbarazzo, Pasolini invece, ovviamente, no. Ci sguazza, anzi, in quella situazione.
Lo scrittore scruta impassibile il monitor in studio che rimanda le immagini dall’arrivo di tappa. Tace e ascolta compìto e curioso la parlata spavalda e insolita di quel ciclista parmigiano. Gli piace già, lo sente autentico.
“Signor Pasolini, a lei che è un grande scrittore, io vorrei chiedere una cosa soltanto –prosegue Vittorio – mi raccomando però, lei mi deve rispondere in totale sincerità. Eccola: lei è venuto qui in TV solo per farsi pubblicità oppure crede davvero che dietro questi ciclisti, questi faticatori della strada, ci sia anche dell’altro, chessò magari qualcosa per scriverci un bel libro, oppure farci un film?”
Pasolini regge l’urto della scomoda domanda e la risposta è altrettanto dirompente: “Caro Adorni, le dirò la verità. Sono venuto qui solo perché mi hanno invitato. Però, come sempre accade poi, mentre stai lì, nascono anche le sorprese. E io prima ho visto due facce che mi hanno sorpreso. Due facce che prenderei e metterei volentieri in un film: Dancelli e Taccone”.
Si tratta di due ciclisti sicuramente meno celebri e vincenti di Merckx, Adorni o Gimondi, volti scavati dalla fatica, nelle retrovie del gruppo, facce vergini e spontanee. Di quelle che piacciono a Pier Paolo. Michele Dancelli è un discreto velocista, l’anno scorso ha tenuto anche la maglia rosa per qualche tappa, salvo poi vedersela sfilare sotto gli occhi da Merckx. Vito Taccone è invece uno scalatore di origini abruzzesi. Ha un temperamento focoso, si dice che una volta al Tour sia persino finito a fare a cazzotti con un avversario che lo accusava di scorrettezze. Uno che non lo tieni a bada facilmente, Vito, anche detto “Il camoscio d’Abruzzo” (…)
(dal capitolo “Roma” di “Storia e geografia del Giro d’Italia” Utet 2017).
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