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Attendiamo fiduciosi.
Anno del grunge: 1994.
Di lì a qualche ora Kurt Cobain, frontman dei Nirvana, si sarebbe sparato un colpo in testa e avrebbe chiuso baracca e burattini. Fine di quella che, per lui, era solo una grande farsa. Quella che vedeva lui protagonista involontario della sua vita.
Avevo ventidue anni, il faccione triste e innocente di Kurt campeggiava nella mia cameretta, sotto i quadri di Magritte. Lo stereo, regalo dell’esame di maturità dei miei, mandava grunge 24 ore su 24. Le pareti, le porte, le finestre vibravano di emozioni sonore elettrificate.
Le camicie in flanella, rigorosamente a scacchi grossi, stipate nell’armadio. La scena, il pomeriggio della domenica, era sempre la stessa: mimare per ore la disperazione di Kurt trasformando il divano letto nel palco del Lollapalooza o di Glastonbury. Festival che raccoglievano decine, a volte persino centinaia di migliaia di fan in delirio, che bivaccavano – modello Woodstock – tra fango, canne e cani randagi, magari per giorni.
Mamma e papà che mi intimano di abbassare il volume, rompendo fatalmente l’incantesimo e io che provo a controbattere, poi cedo inevitabilmente. Spengo e vado di là.
Butto un occhio alla tv. Mandano il Giro delle Fiandre. Una delle cinque Classiche Monumento del ciclismo.
Allora, seppure soltanto per qualche ora, depongo la Fender (chi non ne ha avuta una negli anni Novanta?) e mi immergo nel pavé. “In Utero” lascia magicamente il posto al Koppenberg, il Grammont gracchia nell’amplificatore Marshall più forte dei Pearl Jam.
Primo, anzi no, o forse sì.
Domenica 3 aprile 1994 – Ronde Van Vlaanderen.
Vado di là, dicevo. Il sole scintilla dalla finestra del salone. Porca miseria, mi impedisce di vedere per bene: il Sony tubo catodico nuovo di pacca è irrimediabilmente tagliato in due da una lama di luce. Sapete quando non c’è modo di togliere il riflesso del sole dallo schermo del televisore? Ecco, un centimetro esatto – è sempre e solo un centimetro, mai di più – quello lasciato scoperto dalla dannata tenda, ma è sufficiente a non farmi vedere una beata mazza. Solo qualche sagoma indefinita. Sento le voci dei commentatori e ogni tanto, producendomi in pose da contorsionista, scorgo qualche ciclista che arranca. Tra cui quello là, con la maglia gialla. Che finisce dannatamente però sempre in mezzo al riflesso di luce.
In quel non vedere perfettamente la scena, in quel esserci e non esserci allo stesso tempo, si racchiude il senso di quella mia domenica pomeriggio. Non si vede perfettamente la tv così come non si vedono bene i ciclisti, così come non si vedrà bene nemmeno la linea del traguardo quando arriverà. Sono gli ultimi chilometri, l’ ultimo muro, le ultime curve, tra le transenne e la confusione della gente che trabocca da ogni angolo. Nel gruppetto di testa ci sono due italiani, uno è Franco Ballerini, l’altro è Gianni Bugno, quello con la divisa gialla.
Resto fisso a guardare, Gianni arranca, lo stanno tragicamente recuperando. Mancano 500 metri, oddio lo prendono. Ti prego, fa che non ci riescano. 200 metri, l’han preso, è finita. Mi volto dall’altra parte. Non voglio guardare.
50 metri. Forse ce la fa ancora.
Gianni sbanda, ha un sussulto, quasi cade, taglia il traguardo per miracolo, appare stravolto.
Quello di fianco, con la maglia chiara e i pantaloncini blu, lo ha fregato, ci scommetto centomila lire. Come con l’Inter, la mia squadra del cuore. Non si vince mai quando tifi per quelli “sbagliati”.
Il giallo però, mi accorgo, ha alzato le braccia al cielo poco prima del traguardo. Cosa gli è venuto in mente, è matto? Si vede da qui che non ha vinto lui. O forse sì?
Toccherà, come nel più angosciante dei thriller, aspettare il fotofinish.
Attendiamo fiduciosi.
Nemmeno Stephen King
3 aprile 1994, stranamente non piove e non fa freddo. Anzi, guarda, c’è anche un raggio di sole. Che non sarà un Giro delle Fiandre come gli altri è chiaro da subito. Succede che lo stai correndo bene e che, come a Stoccarda, ti sei infilato in un bel guaio. Quello di chi, a un chilometro dall’arrivo, è nel gruppetto dei migliori. Ora sono cavoli tuoi. La tua divisa stavolta è gialla e in mezzo al gruppo si distingue bene. Ti sei già lasciato alle spalle il terribile Muro di Grammont, posto a 15 chilometri dall’arrivo, quello forse più cattivo di tutto il Giro delle Fiandre, quello dove spesso si decide la corsa.
Il belga Johan Museeuw, l’idolo della folla locale, ti sta alle calcagna da un po’, probabilmente dovrete fare a sportellate. A poche centinaia di metri dall’arrivo, a un tratto, ti sfili di lato e allunghi. Ancora una volta sembra l’azione decisiva. Ma il belga non ci sta a perdere davanti alla sua gente, sbuffa e incede come un cingolato, spalla a spalla con te. Ti vuole ingoiare. Tu hai un rapporto duro, si riconosce dalla pedalata più lenta, come sempre; la sua, invece, è più agile. Meno cento, meno cinquanta. Viene voglia di girarsi dall’altra parte e non guardare. Cardiopalma – Bugno sta per colpire ancora. Siete appaiati sulla linea del traguardo e tu cosa fai? Come a Stoccarda alzi quelle dannate braccia al cielo. Già, ma se a Stoccarda si capiva che eri di mezza ruota davanti a Indurain qui non è affatto chiaro. È il panico. Tu e Museeuw siete attaccati con la colla: chi diavolo ha vinto?
Passano cinque interminabili minuti in cui nessuno dice niente. Non vola una mosca. E sei hai esultato troppo presto, adesso che figura ci fai?
Poi, per fortuna, arriva, folle e meraviglioso, il verdetto del fotofinish. Il più bello di una vita intera. Hai vinto tu, di mezzo pollice e un millimetro d’unghia, ma hai vinto. Questo conta. Un finale degno di un romanzo mozzafiato di Stephen King.
“Ho pensato alla vittoria, mi sono concentrato e non ho mollato”. In quanti abbiamo temuto che la bici di Museeuw fosse davanti alla tua, che il tuo gesto ti avesse fatto perdere aerodinamicità, fermandoti? La bicicletta del belga ha un ultimo pericoloso sussulto, con un colpo di reni l’avversario sbanda verso di te, rimanete in piedi per miracolo. Giusto per lasciarci questo stupendo e indimenticabile finale. Ancora oggi, a rivedere quel fotofinish con le due ruote appaiate, si fa fatica a dire chi abbia vinto. Hai regalato ai belgi emozioni così forti che non a caso quel giorno molti genitori hanno scelto di chiamare il oro futuri figli Gianni in tuo onore.
Quando ti comunicano che hai vinto ufficialmente, nessuno sa cosa provi. Ovviamente resti te stesso fino all’ultimo, alzi solo un braccio, ma nei tuoi occhi, quegli occhi così intensamente azzurri che oggi sembrano ancora più contrastare con il nero corvino dei tuoi capelli, si legge finalmente, forse, un’emozione vicina alla gioia. Commosso magari no, non sarebbe giusto attribuirti una manifestazione tanto plateale, ma qualcosa nel tuo cuore incomprensibile e scettico si è finalmente mosso. L’hai gettato oltre l’ostacolo oggi, così come hai fatto con la tua ruota “pazza” al fotofinish, con quella tua esultanza scomposta che quasi ti fa cadere.
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