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Le Giovani Marmotte – Terza tappa: Alpe d’Huez.
“As far as prestige is concerned, nothing is better than Alpe d’Huez. It is the most incredible sensation riding up there, half a million people screaming for you to win.” – Andy Hampsten
Dicono che la tecnica migliore per affrontare il passaggio dalla luce del sole al buio dei tunnel, in bici, sia quella di chiudere un occhio. E aprirlo non appena si entra in galleria.
Sarà. Quello che vedete immortalato lassopra è l’ultimo dei ben 6 tunnel che si susseguono a breve distanza, nel tratto finale della interminabile discesa dal Galibier. Appena prima di guadagnare il drittone finale che conduce a Bourg d’Oisans. Là dove sei partito stamattina all’alba. Ma, soprattutto, là ove attacca l’Alpe d’Huez. Il Santiago Bernabeu del ciclismo. Il Sambodromo della pedivella. Il Colosseo degli scalatori.
L’abbiamo perlustrata tutta il giorno prima questa ascesa, in auto. Così come l’ultimo tratto di percorso, tunnel inclusi, dal Lautaret alla finish line della vetta.
Ci ha fatto impressione. Un’impressione pazzesca.
Già dalla prima rampa e dal primo tornante. La cattiveria infinita di questo perfido gioco di averla posta a fine gara ci sembra qualcosa di spietato. Arrivare qui, quando hai già qualcosa come 161 km e 4 mila metri di dislivello nelle gambe, non è un gioco. È cosa da stendere tori.
Mentre l’auto caracollava, scalando le marce, ci siamo seriamente chiesti in che condizioni l’avremmo affrontata il giorno dopo.
Ci siamo risposti con un silenzio assordante.Unisono.
Nel Ford C-Max dei fratellini Schleck da Cernusco, nessuno fiatava. Solo l’auto bofonchiava qualcosa.
Eppure, via via che salivamo, la storia si impossessava dei nostri occhi: sull’Alpe ognuno dei sui 21 fottutissimi tornanti porta il nome di un vincitore di tappa qui. Da Coppi a Rolland, passando per Pantani, Ivan Mayo, Bugno, Sastre e Guerini. L’asfalto è un’enorme tela di striscioni permanenti. Cuciti tra loro dalla storia. Qui, nessuno li cancella.
Lunghissimi geroglifici o incisioni rupestri, bitume su tela.
Ogni curva lascia, via via, intravedere il villaggetto (una stazione sciistica ultra moderna, una sorta di Las Vegas dei ghiacci) che ti aspetta in cima.Uno spettacolo inquietante.
Arrivati in vetta, scesi dall’auto, come non bastasse, fa chiaramente freddo. Una decina di gradi se è tanto. Vien giù anche qualche goccia. Il massimo.
La paura e il fascino incisi nei nostri occhi.
Torniamo ora in medias res. Finite le gallerie tremebonde, arrivo a Bourg d’Oisans.
I timori sono finiti: ho fatto la discesa impossibile del Glandon e quella spericolata del Galibier (le mie due vere incognite), mi sono infilato nella lunga serie di tunnel antri di orchi. L’Alpe mi fa il solletico.
Questo il sentimento con cui mi avvicino alla prima rampa maledetta. Sorrido, sono felice. Non vedo l’ora.
Attacco subito, con una strana colonna sonora nelle orecchie. Niente iPod, ma sento chiaramente i Rolling Stones di Brown Sugar. Dev’essere la barretta alle maltodestrine mangiata sul Galibier.
Vado su tra due ali di folla. Sono quasi le cinque del pomeriggio, i migliori saran transitati di qui due ore fa, ma, ragazzi miei, la gente qui è ancora assiepata in modalità Tour de France. Tutti a guardarmi come fossi Bradley Wiggins.
Un bimbo, correndomi dietro, mi porge un bicchiere d’acqua gelate di fonte. Un grosso figuro mi rovescia addosso un secchio della stessa acqua, in modalità Fantozzi-Coppa Cobram.
Io avanzo fradicio di gioia. Inchiodato sul 23 che è un piacere, mulinando senza sosta agile e potente come non mai, senza sfiorare le leve del Record.
Ho l’impressione (anche se i numeri diranno diversamente) che sia la migliore performance in salita della mia carriera.
Nessuno mi supera, tutti stravolti dalla fatica: decine di ciclisti mollano il colpo e salgono a piedi, con le SIDI in mano.
Io no. Vado via leggero che mi pare una festa.
Aggancio un belga con cui provo a scambiare quattro chiacchiere (in una lingua tendente al Sanscrito): va in affanno, con un cenno eloquente della mano mi dice di lasciar perdere e levarmi di torno.
Ci riprovo poco dopo con un irlandese e due bretoni. Stesso risultato.
Allora parlo da solo. Canto.
Non sento fatica, non sento stanchezza. Senza il peso di paure, timori, incertezze, i miei 56 kg si trasformano in aria.
Forse ho le visioni.
Vedo la vetta, e leggo chiaro: ultimo chilometro. La Flamme Rouge.
Il sole è quello del tardo pomeriggio e c’è anche qualche nuvola.
Mi scopro commosso sotto gli Oakley: quanto è forte questa roba qua, penso.
Capisco mi rimarrà scolpita dentro a lungo. In un lampo ripenso a tutto: dai timori del giorno prima, ai preparativi in camera, alla colazione, alla partenza. Al Glandon, alla sua discesa secca e decisa, dedicata a chi soffre di vertigini.
All’immensità lunare del Galibier. A quei quasi 50 km di discesa, prima tra i ghiacci, poi tra le fauci dei tunnel, fino al mito finale.
Riavvolgendo il nastro, vedo un progressivo alleggerimento.
Un correre sempre più forte verso un urlo liberatorio.
180 km e 5 mila metri di dislivello.
Una bazzeccola. Un bicchiere di ruhm liscio. Forte, emozionante. Come credo, poche cose, ad oggi, nella mia vita.
E per un tratto, con il vento tra i capelli, finalmente liberi dal casco, mi ritrovo a sorridere pensando alle Marmotte. Quei curiosi animali, che abitano da queste parti.
Già. Le Marmotte.
Cose da bimbi.
Dati via Strava.