Le Giovani Marmotte – Seconda Tappa: Col du Galibier.

ice.
Volevo (e dovevo) scrivervi di questa montagna subito. Il giorno stesso. 20 secondi dopo aver iniziato la interminabile discesa verso Bourg d’Oisans.
E invece lo faccio ora. In colpevole ritardo.
Già, perché questa montagna qua lascia sotto pelle ricordi carichi come scosse elettriche. Vanno fermati in tempo.
Ti svegli nel pieno della notte a metà tra il Telegraphe e i 2645 m. sul livello del mare che t’aspettano dopo. Ti svegli che sei a Valloire. Giovane e scapigliato (poi magari è antichissimo) borgo della Savoia francese. C’è da fare il Galibier ora, ti dicono. E tu, tu guardi avanti: lungo quello che ti pare un interminabile rettilineo che porta verso un cuneo tra le rocce. Ti domandi come sia possibile che là ci sia il famoso Col du Galibier. E il suo nome ti risuona come quello di un vecchio generale in pensione. Avvolto da brume e racconti del passato. Non te lo figuri lì, vivo e vegeto come invece a breve ti apparirà in tutta la sua bellezza sturm und drang.
Al momento, al massimo, ti pare d’essere ai piedi di un gigante. Sulla sua caviglia sinistra, pronto a solleticarlo con le tue Fulcrum Racing Zero. Nulla più.
La civiltà, le botteghe fiorite di turisti che popolano il borgo non ti lascian presagire niente di quel che t’aspetta.
Hai appena passato una fontanella, dove scorgi, senza fermarti, grappoli di ciclisti esausti, al sole, che si abbeverano come bimbi dopo i giuochi. Frank – Luca Shleck al tuo fianco, fedele luogotenente CNB.
Vi siete appena lasciati alle spalle la bellezza di 12 km di salita: pedalabile, regolare, ma pur sempre salita, per di più costante: da Saint Michel de Maurienne, nome che gronda storia e incute timore, al Colle chiamato “Telegrafo”. Ove, dicono, si veda, appunto, il telegrafo. Io non scorgo che pini d’un verde acceso. Siamo ampiamente sotto i duemila metri, il mio terreno preferito. Forse per quello le “visioni” non si sono ancora impadronite di me.
Il Col du Télégraphe è andato giù con frequenza di pedalata alta, sincera e frizzante. Un Aperol, dopo il Campari Soda – Glandon, un Aperol rinforzato però: siamo già oltre 90 km e quasi 3000 m. di dislivello dal via.
E, solo or,a arriva il bello.
Ovvero: welcome into the wild.
Dopo il primo lungo rettilineo, rapidamente la civiltà scompare. E la monumentale sagoma con cappello di ghiaccio e occhi di cervo del Grand Galibier si apre all’improvviso sulla destra. E la strada piega verso di lui, come a inseguirlo. Ma lui è una lepre, sfugge, ammalia, ma poi scappa. Si allontana a ogni sguardo.
Comincia davanti a te, di colpo, una serpentina di tornanti stretti con in cima gli “Indiani” appostati ad aspettarti (se non sapete cosa sono gli “Indiani” in gergo pedivellico, siete pregati, seduta stante, di abbandonare questo blog). Solo allora capisci cosa dovrai fare per andartelo a prendere. Il Galibier.
Il punto è: cosa vuoi tu da lui?
O anche: cosa vuole lui da te?
Fa poca differenza.
Sul Galibier, la salita pantaniana per eccellenza, è tutto un dare avere. Io dico di dare.
E così dò.
Dopo i primi 8-9 km tranqulli, si fanno largo di colpo una decina di km, tutti tra l’8 e il 11%. Tutti dai duemila metri in sù. Tra speroni i di roccia lacrimanti ghiaccio fuso e, soprattutto, una parete, verticale davanti a te. Una parete dove la strada non si sa come ha fatto ad arrampicarsi. Non ho mai visto, ad oggi (e ormai ne ho di scalpi all’attivo), una strada messa giù dall’uomo in siffatto modo. Destinata palesemente a crescere laddove la natura si oppone strenuamente per inospitalità. Guardate,  non c’è Gavia che tenga, non c’è Stelvio che competa, non c’è Giau o Pordoi che possan combattervi ad armi pari con sua maestà Le Galibier. Qui c’è qualcosa di magico e impervio oltre ciò che hai visto finora. Qualcosa di tremendamente “pericoloso” e irresistibilmente intrigante allo stesso tempo. Ai -3 la strada s’apre a cumuli di neve sui lati che paion striscioni con scritte lasciate dai tifosi.  Vedi una casupola, pensi sia il passo. Non lo è. Si sale ancora, per Dio. E si sale ripidi. Il passo, ora lo vedi, è appostato su un cucuzzolo. Come hanno fatto?
Come hanno fatto ad arrivare qui con l’asfalto?
Questa la sola domanda che ti si ficca in testa.
Eh già: ai 2556 m. c’è un tunnel. Prima aperto, poi chiuso. Poi di nuovo aperto.
Ma in bici non ce ne si cura, si sale ancora. I tornanti si fanno sempre più stretti. La vetta è a uno sputo.
Ti ci fermi a rifiatare, tra due aquile in volto a mezzo metro da te. Un ricciolo di terra che cade, spostato dalle Sidi, a valle. Il dirupo, là dove si gettò in picchiata Marco, è impervio. Mette i brividi.
Ora devi buttarti giù tu. Mamma, che allegria.
Hai davanti 46 km di discesa. Un quarto di gara.
Tutto chiaro?
Bene. I primi 8 li fai in mezzo ai burroni. Abbarbicato su una lingua d’asfalto, come un fachiro. Fino all’incantato e bellissimo Col du Lautaret (per la cronaca: la foto che vedete lassopra ritrae il ghiacciaio della Meije visto dal Lautaret, appunto).
Gli altri 38 km pigi il 50×11 a tutta tra dighe e gallerie. Buie, umide, cattive.
L’ultima di queste è nera come la pece, intervallata solo da qualche luce bluastra. L’effetto al buio e di un neon acido e chimico. Una sorta di visione da LSD.
Un’auto dietro vi illumina provvidenziale la via, senza superarvi. Quasi intercettasse il timore.
Bourg d’Oisans ormai è a uno sputo. l’Alpe (d’Huez) chiama.
Meglio rispondere.
CONTINUA