Mor-Tritolo.

Io e il Mostro. Una storia esplosiva.

Premessa: il Mortirolo è nitroglicerina allo stato puro. Prima di farlo, pensateci non due ma tre volte. È materiale che scotta, vi potrebbe esplodere tra le pedivelle. Non addentratevi nelle sue vicinanze, se non muniti di tanta pazienza e una dose massiccia di disturbi mentali. Il coraggio non occorre: è sentimento troppo nobile per scomodarlo. No. Il Mortirolo richiede follia.
Bene. Cosa si può dire della dinamite, quindi? Niente. Se non di sfuggirvi il più presto possibile, di girarle al largo, prima che la miccia raggiunga la parte finale.
Ecco cosa è il Mortirolo.
Fine della premessa.
E ora state a sentire.
Torniamo dove ci eravamo lasciati: disperso – o così almeno si diceva – sulle cime ghiacciate del Passo Gavia.
E allora riavvolgiamo il nastro e ripartiamo. Dai, silenzio che squilla un telefono. Magari è il pericoloso che chiama…
Driiiiiiiiin!
Dall’altra parte dell’apperecchio: Mazzo di Valtellina.
– Avvistato verso mezzodì ciclista di bassa statura, smilzo, imboccare la strada della perdizione. Altezza non più di uno e settanta, peso cinquantasette chili a dir tanto. In evidente stato confusionale –
È lui o non è lui?
Certo che è lui.
Ecco, dunque a Mazzo c’è arrivato.
Cosa!? Non vorrete mica seguirlo su di qua? Siam mica matti.
Che non vi venga in mente anche a voialtri di andare a cerarlo e di imboccare quella stramaledetta stradina nel bosco.
Già perché, se lo fate, sappiate che lo farete a vostro rischio e pericolo. Noialtri qui non vi si verrà dietro.
Non li faremo quei primi 3 km che sembra sì duri, tra il 10% e il 14%, ma che tutto sommato ti fan dire: sì, è duro, ma si può tenere sotto controllo. No. Non cadremo in quel tranello.
Se volete corrergli dietro, al pericoloso, fate pure. Noi vi si aspetta all’arrivo, all’Aprica. Saluti.
Si dà il caso infatti che dal km 4 della salita al passo che chiaman Mortirolo si entri in un girone dantesco del dislivello.
Un ospedale psichiatrico della pedivella a cielo aperto. Anzi, a bosco aperto. Una galleria degli orrori ciclistici difficilmente ripetibile. Persone in trance, con le Sidi in mano e lo sguardo perso nel vuoto, ferme a bordo carreggiata, ad aspettare non si sa che cosa. Personaggi una volta rispettabili, ansimare come mucche impazzite e infine stramazzare a terra stecchiti tra improperi e vaniloqui.
Avvocati, notai, persone perbene con una famiglia, con le lacrime agli occhi e un colorito prossimo all’asfissia, tentar di non mollare il manubrio. Salvo arrendersi in prossimità di una inesistente fontanella.Miraggio della domenica.
Onesti passisti, accovacciati a rimestare con le mani nel canaletto di scolo dell’acqua, in cerca di un po’ di refrigerio.
Se vi ci ficcate, sul Mortirolo, dal km 4 in avanti, noi non vi si vien mica a prendere. Ah no. Sia ben chiaro.
Se superate dunque i primi 3 km, credendo di “sopportare” e “gestire, beh sappiate che il km 4 ha una pendenza “media” – e ripetiamo “media” – del 14%. Il che vuol dire punte del 20-21%.
Il km 5 gli assomiglia poi molto, il 6 fa registrare il 18% come se piovesse, il 7 giù di lì, l’8 parla ancora il 20%, e il 9: poteva essere diverso?
Le rampe del Mortirolo son figure retoriche della sofferenza, anacoluti del dislivello, metonime del piede a terra.
Se vi fermate, sul Mortirolo, per correr dietro a quel deficiente, sappiate poi che non riuscirete più a montare in sella. Troppo ripido.
Se sentirete la ruota anteriore sollevarsi da terra, non sarà una curiosa illusione ottica-percettiva dovuta alla fatica. No cari nostri: si chiama pendenza al 20%. Ma soprattutto una cosa: se proprio volete andare a cercarlo quel inqualificabile demente, ditegli che noi ci dissociamo questa volta nella maniera più totale. Che è una vergogna. Che non si lascia a casa una moglie, che oggi compie pure gli anni e dei figli, per approssimarsi all’infarto in uno stupido bosco della Valtellina. No, e poi no.
E se vi capita di vederlo verso il km 8, vicino al monumento di Pantani (per dire: uno che il Mortirolo l’ha salito in 43 minuti, non diciamo altro), beh avvisatelo che Cassani nel DVD si sbaglia: dopo non molla mica
Non l’avete visto nemmeno al km 9 e nemmeno al km 10, dite, e nemmeno all’11, laddove la strada spiana al 9%??
Non può essere. Sarà mica che è arrivato in cima?

Conclusioni in ordine sparso:
Sì. Sono arrivato in cima.
Sì. Sano e senza piede a terra.
Sì.La soddisfazione per aver domato questo mostro è veramente, veramente tanta. Imparagonabile a quella per qualunque altra salita abbia fatto finora.
Sì. Anche la fatica è tanta, imparagonabile a quella provata per qualunque altra salita fatta.
E ora due considerazioncine generali sul percorso (mentre l’organizzazione l’ho trovata non sempre all’altezza della situazione: ristori pochi e poco forniti, molti incroci mal presidiati, scarsa e inadeguata la segnaletica lungo il percorso).
La Gf Giordana è, come tracciato, ad oggi, la Granfondo più bella che ho fatto. Per durezza, lunghezza, bellezza del paesaggio. Contiene in sé due mostri sacri, Gavia e Mortirolo, che, pur essendo completamente diversi tra loro, appagano come poche altre salite. E in più, si respira ovunque quel misurarsi con la storia del ciclismo che lascia più di un’emozione cucita addosso e difficile da dimenticare.
Il Gavia, da Ponte di Legno è senza alcun dubbio la salita più bella in assoluto che io abbia mai fatto. Meravigliosa, epica, dura, lunga. Se si considera che s’inizia a salire da Edolo (600 m. slm), si parla di una salita di 2.000 metri di dislivello.
Il Mortirolo, soprattutto se affrontato dopo il Gavia è una prova estrema con se stessi. O ce la fai o non ce la fai. Tertium non datur. Richiede disposizione al sacrificio estremo e prolungato. Non è per tutti. Senza voler togliere niente a nessuno.
Ma quando si arriva in vetta, ci si sente degli altri ciclisti. Come se iniziasse una seconda era. Un nuovo livello del gioco. Non si è più gli stessi, dopo il Mortirolo.
Il tratto di strada nel bosco dalla cima del Mortirolo a Trivigno, la strada del Monte Padrio, è semplicemente stupenda e ripaga completamente della fatica fatta. Immersa nel bosco, poi aperta sulla Val Camonica. L’arrivo all’Aprica ha il sapore dell’appagamento totale e incondizionato con il proprio fisico e la propria mente.
Per chiudere, dedico questa piccola impresa a mio nonno Bruno che ho incontrato sul Gavia, metaforicamente ma neanche tanto, e che mi ha passato una borraccia.

Al solito, i dati Garmin per i più curiosi.

PS: e ora sotto con Corvara. Stay tuned.

(fonte immagine: www.rapha.cc)