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PS come Play Station.
«Peter Sagan è un’icona pop. Ha ribaltato l’estetica del ciclismo e un pezzo della sua narrazione» scrive Angelo Carotenuto sul Venerdì di Repubblica a proposito del mio ultimo libro E lo ringrazio molto, perché raramente la prima recensione di un mio libro è stata così in sintonia con ciò che volevo comunicare. Mi sono accorto che in “Generazione Peter Sagan” la “tesi di fondo” veniva fuori mano a mano che lo scrivevo. Non c’era in partenza. Non solo, ma quando ho cominciato a lavorarci mi sono accorto che stavo clamorosamente sbagliando strada, andando fuori tema. Stavo ciò scrivendo (o ri-scrivendo) una sua biografia. Ma quella c’è già, se l’è già fatta lui, con un giornalista, uno perché dovrebbe comprare il libro di Pellizzari? Mi sono chiesto assieme all’editore (che ringrazio per avervi acceso la luce). Saluti, in cassa, quel lettore, ci andrà con la bio ufficiale, scritta da Peter sé medesimo. Altro che Pellizzari. Lo farei anche io probabilmente.
E allora, preso dal panico, ho capito che il libro lo dovevo riscrivere. Da capo.
Dovevo parlare sì delle vittorie di Sagan, della storia di un campione vero, ma anche e forse soprattutto di un’altra cosa. Di uno che sa divertirsi e che rifiuta istintivamente il mito della sofferenza in bici. E mentre mettevo a fuoco questa cosa, ho capito che il libro doveva raccontare proprio questo lasciarsi dietro le spalle l’immaginario doloroso e nostalgico del ciclismo tradizionale. Che è poi la chiave del successo dello slovacco e, concedetemelo, anche di tutti noi, che in bici ci andiamo ogni giorno. Dovevo insomma parlare di noi, semplicemente. Del popolo del pedale e del nostro leader. Ne avevamo bisogno, qualcuno doveva portare a galla il nostro grido liberatorio. Un po’ come quando da ragazzino, un giorno Peter vede il fratello maggiore Juraj vincere una corsa in MTB ma fare una strana cosa: non esultare…
A proposito di Vincere
Juraj, mentre segue da gregario il fratello che trionfa ai mondiali di Richmond 2015, mentre lo vede festeggiare come a lui mai sarebbe venuto in mente, prova sincero stupore. Chissà quanto c’è, in quell’istante iridato, di lui e Peter da piccoli. Delle ore ingenue e perdute, la domenica mattina, scorrazzando nel fango con papà Lubomir. Del loro tornare a casa, soltanto quando madidi di sudore e sporchi dalla testa ai piedi. Dello scarico della doccia di casa che si ingorgava irrimediabilmente per via della terra scivolata dai loro corpi sotto l’acqua bollente. In quel momento, mentre suo fratello, il campione del mondo, indossando la divisa bianca con i colori dell’iride, sale sul podio e riceve da una miss la medaglia d’oro, forse Juraj capisce che quella, in fondo, è la strada giusta. Vincere per gioire, come ragazzini.
A Richmond, dopo aver tagliato il traguardo, Peter si è fermato ad attendere tutti i suoi avversari, uno per uno. Non si è mosso verso la cerimonia di premiazione, se non dopo aver dato il cinque a ciascuno di loro. Gli avversari hanno contraccambiato più che volentieri, contagiati da un’atmosfera di festa, inattesa quanto felice. Poi, lo slovacco ha gettato i guantini e il caschetto al pubblico, esattamente come farebbe una rockstar a fine concerto con plettri e bandana. Per concludere degnamente lo show, Peter si è esibito in un bacio – «senza fine», direbbe Bruce Springsteen – con la fidanzata Katarina. Una scena da film. O, forse, più semplicemente, quello che ognuno di noi avrebbe voluto fare al suo posto.
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